Fuori la glaciazione, tanto attesa e, a quanto pare, ormai imminente. Dentro il caminetto acceso, il gatto che si stiracchia, una tisana calda e sul piatto un disco suona. Bello, meraviglioso, ma finzione stupida e, per me, avvilente perchè con questo freddo io sono sempre in giro a piedi (come berciava il poeta) e l’unica concessione alla “brutta” stagione possono essere le cuffie stereo a sostituire gli auricolari. D’altronde se, caro promoter, ti premuri di farmi avere i file del  disco con grande anticipo sull’uscita ma poi il prodotto effettivo non arriva mai, il lettore Mp3, freddo e piatto rimane l’unica via per poter stendere una recensione sensata prima che la fiumana del mercato lo travolga.

Lorenzo Urciullo, già  negli Albanopower, band che sembrava sulla rampa di lancio circa tre anni fa, si era inventato Colapesce nel 2010, un Ep digitale che doveva essere poco più di un diversivo e che invece si è rivelato gradito ad un folto pubblico, tanto da venire stampato. Così eccoci di fronte ai 13 brani che compongono “Un meraviglioso declino”, album vagamente estivo, musicalmente molto curato, per certi versi sorprendente dato che parliamo pur sempre di un esordio: perchè cantato in italiano e perchè piuttosto differente dalla precedente esperienza di Urciullo. A questo punto del discorso retorico del critico intirizzito giunge il però. Però il disco in questione è troppo lungo, o per lo meno ci sono troppi brani che finiscono per assomigliarsi, vuoi per la non eccelsa estensione vocale del nostro, vuoi per un punto di vista lirico lieve quanto essenzialmente ripetitivo. Insomma a quante sconfitte personali dobbiamo ancora assistere, a quante primavere che muoiono, quanti amori sfilacciati dobbiamo rimpiangere prima di poter gridare che ne abbiamo abbastanza?

I primi brani, a onor del vero, hanno un bel piglio, “Restiamo in casa” che rinnova la tradizione delle coppie più belle del mondo, belle perchè estranee alle contingenze, isolate e malinconiche ad attendere l’invasione de “I barbari”; la languida “Satellite” e l’immancabile pezzo reto-politico di “La zona rossa” rimandano echi Amor Fou nemmeno troppo velati. In chiusura ci sono bei brani che si rifanno invece alla tradizione anglosassone (“S’illumina”, “Il Mattino Dei Morti Viventi” e l’ottima “Bogotà “), mescolata felicemente ad una sicilianità  dell’immaginario lirico e iconico; laddove Fleet Foxes, Yo La Tengo e Will Oldham fanno da punti di riferimento tra mosche, gechi e polvere. Nel mezzo troppi brani ripetitivi, con poche cose da dire se non un’idea di malinconia e raggomitolamento semantico esasperanti, unita ad una voce (scusate l’ossessione) che troppo spesso, e pericolosamente, mi ricorda gli Audio 2 piuttosto che il solito Battisti, sventolato al primo italiano con la voce un pochino arrochita.

Rimane il tempo di annotare il brano preferito ovvero “Sottotitoli”, col suo impianto ritmico finalmente libero di dettare i tempi e gli intrecci vocali con la sublime Sara Mazo a riportare alla mente e al cuore quella meraviglia (snobbata) che furono, nei primi Novanta, gli Scisma.