E’ sempre più evidente l’opposta tendenza musicale che vede da un lato dischi infarciti di strumenti e sintetizzatori, dall’altro album costruiti su sonorità minimaliste. La seconda fatica solista di Matt Pryor, “May Day”, sembra appartenere alla seconda categoria, sfruttando il fascino della semplicità musicale giocata sul binomio chitarra / voce, che prevale nella maggioranza del disco, giocando con pop e americana e creando un’aura di malinconia folk.
Riprendendo le basi nostalgiche del precendente “Confidence”, Matt Pryor confeziona brani brevi ed epifanici, piccoli lampioni di luce ala “Pink Moon” di Nick Drake (“Don’t Let The Bastards Get You Down”, “Polish The Broken Glass”). Più solari sono le incursioni dylaniane, con armonica (“The Lies Are Keeping Me Here”, “As If I Could Fall In Love Again”) e banjo di tipica tradizione Americana (“Unhappy Is The Only Happy That You’ll Ever Be”). Più semplice e minimale la ballata “As Lies Go”… This One Is Beautiful”, arricchita da pianoforte e basi sognanti. La malinconia pervade brani più lirici e metabondi, creando contrasti di voce e cori (“Polish The Broken Glass”). La semplicità dei testi ha un ruolo essenziale, strizzando l’occhio al “campus folk” di Kevine Devine, scadendo tuttavia in un pop molto blando, perdendo carattere e spegnendosi nella seconda metà dell’album (“I Was A Witness”).
Un rock acustico e intimo, fatto di brevi epifanie e interludi musicali che non sempre però riescono ad attirare l’attenzione, ripiegandosi su se stessi in autocitazionismo. Una ottima partenza segnata da alcune uscite di strada, che in un complesso risulta gradevole anche se non sempre coinvolgente. Un vero peccato.
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2. The Lies Are Keeping Me Here
3. Where Do We Go From Here
4. Like A Professional
5. As If I Could Fall In Love Again
6. Polish The Broken Glass
7. Unhappy Is The Only Happy That You’ll Ever Be
8. As Lies Go”… This One Is Beautiful
9. Your New Favorite
10. You Won’t Get Any Blood From Me
11. I Was A Witness
12. What My Tired Eyes Would View
Ascolta “May Day”