Figura quasi mitologica e insieme pressochè sconosciuta al di fuori dei patrii confini, notissimo per le sue amanti e certe scandalose composizioni (la celebre “Je T’Aime… Moi Non Plus” e l’ambigua “Les Sucettes” affidata all’innocente e ignara France Gall), altrettanto musicalmente sottovalutato dalle nostre parti (nonostante dagli anni ’90 fino ad oggi siano stati continuamente ristampati i suoi album e sia stato oggetto di omaggi da parte dei più vari gruppi e musicisti), Serge Gainsbourg è probabilmente il più famoso cantautore francese del secondo dopoguerra, ma qualsiasi definizione è riduttiva di fronte al suo genio.
Partito dalla chanson più tradizionale, invaghitosi del jazz e giunto persino a sperimentare con i ritmi in levare del reggae, gli echi e i riverberi del dub, Gainsbourg firma la sua opera più nota nel 1971: il concept album “Histoire de Melody Nelson”.
Vizioso ed ammiccante già dalla famosa cover che ci mostra una Jane Birkin seminuda e sbarazzina, il disco è un monumento all’amore e al sesso senza restrizione alcuna, è il trionfo della passione che coinvolse Serge e Jane (all’epoca in attesa dell’unica figlia, l’attrice e cantante Charlotte), ma è anche tragica riflessione sulla fugacità del tempo: guidando la propria Rolls Royce per le vie di Parigi il protagonista urta la giovanissima Melody che passava in bicicletta, da questo inaspettato incontro-scontro e dalla conseguente, innocua, caduta che lascia intravedere le fresche grazie della giovane inglese nasce una rispettiva fascinazione che culminerà , torbida e focosa, nella stanza 404 di un decadente hotel che è insieme metafora di quell’amore destinato a naufragare e del personaggio (anche dell’uomo?) Gainsbourg, romantico viveur che si getta morboso sulle candide e turgide forme dell’adolescente Melody.
Storia semplice, ma conturbante; soprattutto se annegata nel lascivo torpore funk che caratterizza buona parte dell’opera. Un tappeto nerissimo e sudato, infatti, si stende sotto il malizioso sussurrare di Gainsbourg nella lunga introduzione di “Melody” (sentite poi la versione alternativa di nove minuti abbondanti contenuta nel secondo cd, spaziale), capace di mixare l’Africa più nera, psichedelia liquida e tossica e i lussureggianti archi diretti da Jean Claude Vannier. Le stesse torbide atmosfere di lisergica sensualità tornano nella suite che chiude l’album e nel brano (“L’Hà´tel Particulier”) dedicato all’attenta cronaca ambientale della camera in cui i due amanti si recano per consumare il proibito e atteso convegno carnale, mentre quest’ultimo è affidato alle risatine (etiliche? estatiche?) di Jane Birkin sopra un furente blues-rock.
Nel mezzo l’indimenticabile pop opaco della famosissima “Ballade de Melody Nelson”, un valzer irriverente e l’elegia di “Ah! Melody” per completare uno degli album più influenti e importanti del rock francese ed europeo e molto di più: opera lucida e affascinante, dal sapore europeo e ottocentesco ma dal sound dannatamente nero e avanguardista, ricca di suggestioni e semplicemente irresistibile anche a quarant’anni dall’uscita.