Non traggano in inganno nome del progetto e provenienza DFA: con la musica dei Prinzhorn Dance School non si balla neanche un po’. è roba obliqua e tagliente, roba pericolosa, talmente intensa che mentre l’ascolti ti assorbe totalmente o al contrario ti causa disturbi da deficit d ‘attenzione ma quando ti riprendi è sempre lì, con le sue ripetizioni ossessive, con i suoi accordi minimali, con quel suo essere notevolmente malata e figlia dei tempi nostri come dei tempi in cui i Fall avevano tanto da dire (e quindi ora come a fine settanta, ma tant’è) e Johnny Rotten si tramutava definitivamente in John Lydon con “Metal Box” (o “Second Edition” per chi non ha avuto la fortuna di acquistare l’edizione con i dischi racchiusi in contenitori di metallo).
Nulla di nuovo dunque, nulla che non sia già stato detto o suonato in passato ““ ma trovami tu qualcuno che suona le stesse cose e le suona così vere e veritiere oggi che siamo nel 2012. I Liars, forse. O magari i Fuck Buttons se solo si decidessero finalmente a nutrirsi con una steady diet of Fugazi e a bandire del tutto l’elettronica per cimentarsi in una specie di blues urbano fatto solo di chitarra-basso-batteria ed occasionale voce femminile di un featuring o chissà chi (decidano loro, basta che ci provino. Io sarò contento a prescindere). Comunque, nessun orpello nella musica dei Prinzhorn Dance School, niente che vada a rivestire lo scheletro che costituisce impalcatura ed al tempo stesso essenza delle loro “canzoni” (il virgolettato è d’obbligo, perchè le loro composizioni non hanno propriamente la canonica struttura della canzone pop. Anzi, mi correggo: il loro è pop autistico e artistico, tra Rain Man e Man Ray giusto per citare a sproposito il poeta urbano Dargen D’Amico).
Tanto per dire, talvolta i Prinzhorn Dance School arrivano perfino a lambire i tanto vituperati territori del pop-che-ti-ritrovi-a-canticchiare-quando-meno-te-l’aspetti (“I Want You”, “Shake The Jar”) se non fosse che questi tanto vituperati territori del pop-che-ti-ritrovi-a-canticchiare-quando-meno-te-l’aspetti vengono poi irrimediabilmente deturpati dalle bordate di “Sing Orderly” e dalla venefica filastrocca “Usurper”. Grande disco questo “Clay Class”, un’opera nella quale il vuoto diventa pieno e colma lo spazio che ci circonda, le ritmiche sono ridotte ai minimi termini e mentre l’ascolti ti ritrovi a pensare che i quattro anni dal debut album non sono passati invano e che la proposta del duo è notevolmente migliorata, facendosi meno dispersiva e più focalizzata al raggiungimento dell’obiettivo. Non è dato sapersi quale sia questo obiettivo, ma viste le facce da psicotici dei due sarei portato a pensare che il loro obiettivo nemmeno tanto nascosto sia incasinare in qualche modo il mondo. Ben vengano band così.