Inseriti frettolosamente dentro il calderone emul-rock (termine usato a sproposito dalla critica e spregevole almeno quanto il sound sciapo di tante band formato NME che non hanno nulla di originale per davvero…) gli scozzesissimi Twilight Sad si sono dimostrati abili nell’elaborare un songwriting superiore e un sound maturo e intensissimo, capace di smarcarsi con grande maestria dai più ovvi derivativismi, frutto di un mix tra i più riusciti degli ultimi anni tra stoica eleganza e ruvida spontaneità , tra ossature post-punk, alcune aperture di post-rock tumultuoso e mai banali sporcature shoegaze.
Con il terzo album in studio la band ora ridotta a un trio (dopo la dipartita del bassista Craig Orzel avvenuta nel 2010) ha abbandonato quasi del tutto l’approccio basato sulle chitarre indossando una veste sonora molto diversa rispetto al passato, incentrato su movenze quasi meccaniche e sull’utilizzo di linee e tappeti minimalisti di freddissimi synth analogici e ispirata, a detta del chitarrista stesso della band, Andy McFarlane, ai lavori di vecchie band come Cabaret Voltaire, Public Image Ltd., Can e Magazine e altre più moderne come Liars e Autechre, mentre le primissime recensioni hanno tirato fuori i nomi di Manic Street Preachers e Nine Inch Nails.
I più maliziosi vedranno dei parallelismi con la “svolta” degli Editors di qualche stagione fa, ma i Twilight Sad sono una band più raffinata e arcigna. Non si parla dunque di mero retromodernismo synth-analogico, qua non c’è semplicemente una vecchia tastiera rispolverata per dare quel tocco hipsteroide in più. Qua si tratta spesso di tracce taglienti e realmente addolorate, nessun dark-pop barocco à la White Lies, niente pose à la (con tutto il rispetto per la prima fase della loro carriera) Interpol, ma solo una implicita storia di paure e ossessioni, tra ingranaggi congelati, cieli metallici e ectoplasmi vintage minacciati da barbagli di visioni futuristiche.
Non si può poi non sottolineare la prestazione al microfono di James Graham, cantante praticamente mai incensato e apparentemente dimesso, in realtà capace, grazie al suo timbro elegante e caldo che però non disdegna qualche linea vocale più urlata e lievemente più sporca, di offrire interpretazioni di grande emotività e spessore.
A parte le più convenzionali “Don’t Move” e soprattutto il primo singolo “Another Bed”, pregne di tipici sapori da wave fredda, ci troviamo tra le mani a rischio di geloni tracce di sublime criogenizzata beltà come le più rarefatte “Nil” e “Not Sleeping”, addentate da rugginosi clangori elettronici e immerse in atmosfere di grande spessore emotivo, vedi anche i testi tanto malinconici quanto direi intrisi di dichiarazioni sinistre al limite del paranoico. Se poi da un lato abbiamo la dolcezza aliena di una “Sick” (e qui sono stati tirati in ballo i Radiohead) dall’altro abbiamo l’incubo industriale di “Kill It In The Morning”, che poi sfocia in una cavalcata epica come non si sentiva da tempo in cui svettano eroiche scie di sintetizzatori.
Rimarrà comunque un disco per pochi cultori questo “No One Can Ever Know”. Apparentemente trendy eppure invece molto chiuso in se stesso, pesante e scomodo. Ma si sa che abbiamo sempre tifato per gli underdogs del rock.
Ci sono poi due chicche da aggiungere alla tracklist di base, cioè la bonus track di iTunes “A Million Ignorants”, una strumentale di evocativa mestizia che approfondisce ulteriormente la malinconica visione esistenziale dei TS, e il brano forse più pop e leggiardo tra tutti quelli incisi ultimamente dagli scozzesi ossia “Tell Me When We’re Having Fun”, presente nella versione scaricabile dell’album fornita da eMusic.