I found the idea of being a librarian very appealing ““ working in a place where people had to whisper and only speak when necessary. If only the world were like that!
Peter Cameron, “Someday this pain will be useful to you”
Comparare il film con il libro da cui è stato tratto, è probabilmente l’errore più grave in cui possa incappare l’appassionato di cinema. E’ ovvio che la pellicola risulterà diversa, meritando perciò un’analisi che si distingua dalla ricerca assennata di una “‘sceneggiatura filmata’ ( Dove finisce il film e dove inizia il libro? ), e che prediliga piuttosto una raccolta di dati fattuali da incanalare nelle categorie d’analisi cinematografica il più oggettivamente possibile.
James Sveck (Toby Regbo) è un adolescente “‘non-troppo-normale’ che gira per le strade di New York City disprezzandone la frenesia e il determinismo esistenziale. Nella sua mente rimbombano strane frasi da vita ai margini della comprensione, che vengono sbadatamente incollate tra loro creando un legame con il vecchio ingranaggio del pessimismo cosmico. Famiglia e affetti offrono ben pochi rimedi, e l’ansia vola sospinta da grandi falcate verso la disintegrazione sociale. Se non fosse per la nonna Nanette (Ellen Burstyn) infatti, sia la madre (Marcia Gay Harden) ““ gallerista d’arte contemporanea caduta in una yoga depressione dopo la fine del suo quarto matrimonio -, che il padre (Peter Gallagher) ““ squalo di Wall Street che si destreggia tra chirurgia estetica e giovani ragazze ““ e infine la sorella (Deborah Ann Woll)”“ innamorata del suo professore di linguistica ultraquarantenne e già convinta di poter scrivere le sue memorie ““ risulterebbero veramente di scarso aiuto. Ma l’exit strategy c’è e si chiama Dr. Adler (Lucy Liu), sportiva e aitante life coach, che dopo un periodo di iniziale incomprensione, contribuirà a fare uscire James dal baratro che si era costruito.
Arrivati al terzo paragrafo sorge la domanda che porterà a galla gli altarini: come procedere con lo scanning?. Qui nasce il problema e la delusione: il film di Faenza è totalmente deficitario di quel quantitativo minimo di succo d’uva che trasforma l’acqua in vino. Non serve a nulla concentrarsi sulla sceneggiatura, sulle musiche, sulla fotografia o sul montaggio; alla storia manca soprattutto ritmo. Ma le pecche non finiscono qui, e dal problema veniamo così traghettati verso la delusione. Il vero demerito si manifesta con la scoperta pressocche totalizzante dall’aver distrutto tutto. Non solo una sceneggiatura pallosa e doppiata male smonta l’entusiasmo del testo originale forzandolo verso un precipizio di dialoghi singhiozzati da tipica commedia adolescenziale, ma la grande assenza di fotografia e musica (come è possibile che ciò accada in un film del 21esimo secolo?) lasciano allo spettatore un corpo nudo su cui la regia sembra solo voler inveire.
Il commento finale non può che essere da bar. Male ragazzi, proprio male.