Il sessantotto e gli anni di piombo non è un tema particolarmente toccato dal cinema italiano e scherzarci sopra è quasi un tabù. Ci voleva l’esordio alla regia di Roan Johnson per farlo? No, però lui ci è riuscito bene. Il poco più che trentacinquenne mezzo pisano e mezzo londinese ci racconta una storia ispirata a fatti reali accaduti negli anni di piombo in Italia. Un racconto on the road e scanzonato, dove la realtà politica e sociale è solo un pretesto per scatenare quella che è una vera e propria odissea. I fatti sono presi da una storia vera svoltasi il 1 giugno 1970, con personaggi veri e con tanto di titoli di giornale a testimoniarne l’evento. Il corriere della Sera titolava: Stupore a Pisa: tre ragazzi chiedono asilo politico in Austria.
La trama è presto scritta, si parte da Pisa, si sale in macchina e si finisce in Austria. Dopo le recenti manifestazioni studentesche e gli scioperi della stagione del ’68 l’Italia è confusa. A Pisa nell’ambiente “rivoluzionario” studentesco inizia a girar voce di un colpo di stato militare molto simile a quello dei colonnelli in Grecia di pochi anni prima e quindi meglio per i più esposti e coinvolti (“I primi della lista”) lasciare la propria casa prima di finir male. Due studentelli, il Gismondi (Paolo Cioni) e il Lulli (Francesco Turbanti) si affiancano così a Pino Masi (Claudio Santamaria), loro idolo e fonte di ispirazione, nonchè autore de “La Ballata Del Pinelli”, inno di lotta continua. Il Masi scosso dalla notizia e in preda alla paranoia più assoluta è deciso ad espatriare. A bordo di una A112, i tre prima si dirigono in direzione Jugoslavia poi, impauriti dall’incerto futuro nei balcani dirottano verso l’ Austria decisi a chiedere asilo politico. Particolarmente rappresentativa è la scena della stazione di servizio (con un bellissimo Pierpaolo Capovilla a servire al bancone). I tre si fermano per una sosta e per far benzina quando vedono arrivare una colonna di militari diretti a Roma per la parata del 2 giugno, ma i tre fuggitivi le interpretano come truppe pronte ad occupare i ministeri, il parlamento e il senato, quindi nel panico ripartono ancora più convinti.
Resta il dubbio su cosa e dove avrebbe portato una “pagliacciata” da irresponsabili come questa se non fosse finita bene. Non è una piccola cosa quella combinata, ma questa è una commedia seppur atipica, quindi si bada al solo aspetto estetico e si rimane soddisfatti. Scegliendo un cast giovane e azzeccato nonostante fossero esordienti (Santamaria a parte per gli altri due protagonisti è la prima volta sullo schermo) la sensazione che si ha è di rivivere uno di quei racconti liceali su una cazzata fatta coi compagni e finita bene. L’età giovane dei personaggi, il credere e ribadire con ferocia le proprie idee sfiorando a volte il ridicolo, il susseguirsi di assurdi e ambigui episodi e il proseguire l’avventura come una concatenazione di equivoci su equivoci rendono il film partecipativo e facilmente comprensibile nonostante l’epoca in cui è ambientato sia stata tutt’altro che semplice. Il pericolo di scadere nel qualunquismo c’era. Tutto invece è molto spontaneo e scorrevole, il maggior merito va dato alla sceneggiatura di Johnson e di Davide Lantieri per aver tenuto fino in fondo un equilibrio molto delicato con toni ambigui, lo spettatore a volte rischia con l’abboccare alle assurde paranoie dei protagonisti e invece proprio grazie alla semplice lettura della realtà dei fatti, ci viene svelata la trama in maniera molto naturale, senza esser mai scontata ne eccessiva, mantenendo costantemente nello spettatore un senso di rischio, di paura e tra un sorriso e una smorfia si arriva al finale.
Anche la scelta delle musiche non è scontata. La colonna sonora esula dall’essere piena di inni al ’68, se si escludono le due canzoni di lotta cantate dai protagonisti, le altre musiche sono una fenomenale riedizione di pezzi anni ’60 e ’70. Bellissimo il finale con i tre ragazzi a cantare “Quello Che Non Ho” di De Andrè mentre scorrono i successivi eventi futuri dei protagonisti, perfetta anche la canzone scritta nel 1981 da De Andrè, la quale incarna la fine di un’ epoca e di una generazione sconfitta.