Una cosa so, questa: non si finisce mai di fare i conti con Manuel Agnelli.
Avevamo una quindicina d’anni, il punto di ritrovo era la sala giochi piena di quei giochi che non avevamo conosciuto ancor prima di perdere la dentatura da latte e che i nostri genitori, così poco moderni, non ci regalavano a Natale. Insomma la sala giochi era un posto esotico, seppure sul viale del tramonto (oggi è un negozio di accessori per ragazze dai 13 ai 60 anni, pare funzioni così), un luogo da osservare più che da godere per me da sempre negato con manopole e pulsanti. Arrivava però quell’ora, subito dopo la mezzanotte, in cui la sala diventava un luogo di pace, si fermavano gli scoppi e gli omicidi e si poteva giocare a biliardo e mettere pure qualche canzone nel giurassico juke-box. In una compilation di cui non ricordo il nome era presente “Voglio una pelle splendida”, traccia numero 10 di “Hai paura del buio?” che, più prosaicamente, chiudeva il lato A della cassetta registrata da un amico di un amico il quale, si diceva, fosse in possesso del cd originale.
Dati per morti di pop almeno un paio di volte, a torto (nel 1999 con “Non è per sempre”) o a ragione (con il mezzo disastro di “I milanesi ammazzano il sabato”), gli Afterhours sono ancora qua alle soglie dei 25 anni di carriera e sbuffano e sferragliano come non facevano da tempo. La prima impressione che si ha ascoltando “Padania” è che i nostri si siano riconciliati con le sonorità di quei dischi a cavallo tra Novanta e Zero, più acide e furibonde accantonando l’idea di farsi Bad Seeds italici ma anche un po’ Violent Femmes (perdente in partenza), di certo il rientro nel gruppo del genio sregolato di Xabier Iriondo deve aver influito. Ciò che non è mai mancato ad Agnelli e soci è stato il coraggio, unitamente ad una grande considerazione di sè; solo il coraggio infatti può portare a realizzare un album così duro e diverso come “Padania”, dopo l’innegabile successo commerciale del precedente album e lo sdoganamento avvenuto con la partecipazione a Sanremo. Da questo punto di vista va riconosciuto che la band sul palco e nel retro palco dell’Ariston fece un figurone, segnando con forza quell’edizione del Festival e dando vita all’operazione “Paese reale” che ha ricordato l’esperienza del “Tora Tora!”. Catalizzatore e capofila, questi i ruoli che la band, e il suo frontman in particolare, sa incarnare a meraviglia, provocare azioni e reazioni è quello in cui è maestra e qui non si tira indietro accostando l’alto altissimo della letteratura al basso di un evo che finisce nella putrefazione della carne. Nascono così i 15 brani che compongono l’album, tra schegge dissonanti che riportano alle reminiscenze di vecchie “Strategie”, cavalcate e rimembranze, blues, psichedelia e il gusto per la sferzata sarcastica dei “Messaggi Promozionali”.
Gli Afterhours con “Padania” hanno scritto il loro inno alla libertà , a partire dalla totale autoproduzione e dalla scelta di un titolo controverso, suscettibile di molteplici letture, anche quelle (fatalmente) fraintendenti fino a quella di deludere i propri fans oltranzisti e discutere di Diamanda Galas con Vicenzo Mollica di fronte agli italiani prandiali. Manuel Agnelli ha scritto dei testi spietati e solidissimi, capaci di descrivere la nostra situazione attuale di insensati post-umani (Costruire per distruggere, una lunghissima rincorsa, per finalmente poi morire), la band ha lavorato con coesione per vestirli in modo suggestivo, sontuoso e il risultato finale è magnifico e spazza via teatrini gonfiati da troppe chiacchiere e poca sostanza. Gli Afterhours hanno ancora molto da dire, e noi dobbiamo fare i conti con loro oltre che con noi stessi.