Discoteca parigina, prime ore del mattino. Ludo (Jean Dujardin) barcolla tra i tavoli strafatto di cocaina, allucinato dalla forte luce rossa nella quale si mischiano intriganti figure di donna. Stanco, saluta il buttafuori e sale in moto sigaretta tra le labbra. La guida è lenta e trasognata, perfetta per un impatto che ha il sapore anestetico e freddo di una sala d’ospedale. Taglio. Gli amici più stretti si fanno forza e lo vanno a trovare. Usciti fanno però un patto: la vacanza non può essere rimandata, bisogna partire ugualmente. D’altronde sono solo due settimane e a Ludo serve un po’ di tempo per riprendersi. Allora via, si parte per Cap Ferret.
La compagine è molto variegata. C’è il ricco Max (Francois Cluzet), quello che ospita tutti e si danna perchè ogni cosa sia perfetta; il fisioterapista fisicato Vincet (Benoit Magimel) in piena crisi d’identità sessuale; il bambinone Eric (Gilles Lellouche) prossimo alla scuffia amorosa, e il suo amico Antoine (Laurent Lafitte) in cerca di stabilità ; e infine l’alternativa Marie (Marion Cotillard) persa tra canti amazzonici ed episodi sessuali di poca soddisfazione. La diversità sembra inizialmente fare da collante, e il soggiorno si protrae seppur scisso tra episodi d’ilarità e momenti di tensione generale; ma nel finale il fiato degli atleti non regge, e le loro bugie salgono insieme a galla proprio mentre il cielo s’ingrigisce.
Dopo “Il Grande Freddo” di Lawrence Kasdan, la cinematografia francese torna a esplorare la crisi esistenziale che colpisce i trentenni dall’ideal-tipo disadattato; li stessi che in patria nostra s’impongono ciclicamente nei bestseller di Fabio Volo. A cambiare sono però diversi fattori. In primis, lo scenario di fondo non è più intriso del sogno sessantottino ma del vuoto ideologico e negligenziale dei giorni nostri. In secundis, la cabina di regina è ringiovanita, placata e meno politicizzata. Le premesse per un buon film, quindi, sembrerebbero non mancare affatto.
L’impostazione d’oltre alpe si legge fin dall’inizio, attraverso una contrapposizione scenica tra serio e faceto che accompagna la pellicola lungo tutto il suo corso. Lo schema è trainato soprattutto da una playlist innovativa, che affianca a sonorità riscoperte il suono familiare della musica contemporanea. Arrivati all’intervallo però ci sentiamo stanchi, come mai? La risposta è da ricercare nello sviluppo mancato dei personaggi. Mentre infatti le scene si susseguono, gli attori restano legati ai loro alter ego teatrali di partenza, allungando il brodo della commedia in una zuppa acquosa che non si capisce bene cosa sia, o cosa voglia essere.
Tuttavia dopo la pausa, la mano di Guillaume Canet sembra nuovamente trovare ispirazione, deliziando lo spettatore con un rimbalzo sul fotofinish. La condensazione sentimentale dell’ultima immagine è talmente forte che lo strascico precedente viene quasi dimenticato, e il film torna a iscriversi improvvisamente nelle più classiche e riuscite delle commedie francesi.
Piccole bugie tra amici ha il merito del romanzo classico scritto in lingua antica: interessare il lettore a tratti, e annoiarlo nelle lunghe parti descrittive.
“Piccole Bugie Tra Amici” Il Trailer