Il mio rapporto con la musica di Rufus Wainwright può essere paragonato ad un giro sulle montagne russe. C’è la fatica e la tensione della salita, il brivido della discesa a tutta velocità e i momenti di stasi, necessari e allo stesso tempo un po’ noiosi. Lo considero uno dei più talentuosi cantautori pop dei nostri tempi, talvolta fin troppo narciso, dedito al guardarsi allo specchio al punto di annegare nell’autoreferenzialità . Di conseguenza, le ultime uscite discografiche sono state prese a schiaffi da una una pomposità tale da offuscarne il contenuto. Anche il precedente “Songs Of Lulu”, pur presentando la sua versione più scarna fatta essenzialmente di voce e pianoforte, finiva per appiattirsi al cospetto di una teatralità ai limiti dello stucchevole.
Con “Out Of The Game” il Nostro si riappropria di una dimensione più sobria, incline ad un pop sì laccato ed orchestrale, ma decisamente più fruibile e “umano”. Un equilibrio capace di regalare uno dei dischi migliori della sua carriera, in cui la voce incantevole si adatta alle canzoni senza soverchiarle, merito soprattuto della sapiente produzione di Marc Ronson. Sui brani soffia forte un vento di swing senza tempo, con quel tocco glitterato che diventa discreto marchio di fabbrica in un lavoro impeccabile nella forma e nel contenuto. Ci sono anche le salite più maestose, con un vestito meno gargiate del solito, quasi “casual”, capace di carpire gli umori più semplici dell’ascoltatore.
Probabilmente pensato per piacere ad un pubblico più vasto, “Out Of The Game” rappresenta l’episodio più fuibile dai tempi di “Poses”, di cui eredita la semplicità di fondo. La policromia degli arrangiamenti sempre eleganti costruisce un lavoro atemporale, fuori da ogni schema di coolness e moda passeggera. Il miglior Rufus Wainwright che si diverte a giocare facile con la forma canzone, pur rispettando pedissequamente un percorso di “pop alto” densissimo di qualità . Un disco di rara bellezza ed equilibrio.
Credit Foto: Tuomas Vitikainen / CC BY-SA