Ogni generazione è ossessionata dal proprio lascito, ma per quella nata a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta le cose si sono messe male dal principio: una volta raggiunta la maggiore età , ci siamo persi dietro a complessini nu new wave che non susciteranno mai alcuna forma di venerazione storica. Messe da parte le cravatte strette e le Chucks, da qualche anno ci stiamo provando con Beach House, Grimes e “Hurry Up We Are Dreaming” che nelle aspirazioni degli M83 doveva essere una specie di testamento: il riciclo post-punk è stato un abbaglio, il passaggio di consegne è avvenuto. Oggi ci riconosciamo nell’esistenzialismo da luna park e nel bomber di Ralph Macchio; sta di fatto che continuiamo a non avere niente da consegnare o da ricordare.
Ci serviva una prova per dimostrare che stavolta non eravamo in errore, così abbiamo visto “Drive” e creduto che Brian de Palma o Michael Mann non avrebbero potuto fare la stessa cosa vent’anni utilizzando gli Snap al posto di Kavinsky. La sindrome del lascito è tale che quando arriva un prodotto minimamente sopra la media tendiamo subito a storicizzarlo, a volere che sia importante. E’ per questo che “Kill for Love” è il disco che ci meritiamo- uno dei migliori che potrete ascoltare quest’anno- ma anche un souvenir di ciò che siamo incapaci di fare: siamo i secondi della classe senza nessuna voglia di battere i primi (tanto stupid and contagious non lo siamo mai stati, diffidate di chi vi dice il contrario).
“Kill for Love” è il lato oscuro di “Footloose”, vogliamo ballare ma non possiamo farlo come se ci stessimo davvero credendo; ascoltiamo “Dust to Dust” e intravediamo la sagoma di Kevin Bacon proiettata sul muro, i suoi passi rallentati, le nostre braccia conserte, una scena che per lui è avvenuta tanto tempo fa, e per noi non è mai esistita.
C’è qualcosa di potenzialmente deprimente in questa lunghissima sequenza di canzoni, capace anche spensieratezza (“Back from the Grave”) e di disimpegno (“Lady”) del genere adesso vado a prendermi una cosa da bere e forse torno, tu continua a muoverti come se niente fosse. A fine serata non avremo molto da dire: languidi e mortiferi, felici e inconsapevoli, del nostro lascito generazionale non ci importerà granchè. Però.
Però non è un caso che il disco si apra con “Into the Black” che fa il verso alla famosissima “Hey Hey My My” di Neil Young: una generazione non solo è solo ossessionata da quello che lascerà , ma vuole anche svalutare ciò che è stato prima. Se non possiamo battere i primi della classe possiamo almeno renderli ridicoli, è il divertimento compiaciuto che nasce dall’inferiorità .
Rock’n’ roll WAS here to stay: sapere che è colpa nostra non può che farci sentire meglio.