Il primo giorno dell’Immergut Festival ero tornata in tenda quando già era pieno giorno perchè, come dicevo “tutta l’oscurità invernale è qui bilanciata da una notte estiva cortissima”. Un po’ come il mio venerdì così perfetto viene controbilanciato da un sabato molto più pesante. Il problema si chiama stanchezza misto ad hangover, che in tedesco di dice Kater, che letteralmente vuol dire “gatto”. La tenda si sa, con già qualche raggio di sole diventa un piccolo forno e se il sole comincia già alle quattro e mezza del mattino vuol dire che già alle otto in tenda non ci si può più stare. Io, il mio sacco a pelo e il mio “gatto” andiamo quindi a cercare rifugio sotto un albero ma dormire è impossibile.
Per tutto il giorno ha luogo una piccola lotta tra la me che sta morendo di sonno e vorrebbe prendere il primo treno in direzione Brandeburgo e l’altra me che sta attendendo da giorni due concerti in programma nel giro di una manciata di ore.
Alle tre e mezza decido di appostarmi sotto il grande albero vicino al palco delle betulle. Credevo che ad accompagnare il mio tentativo di addormentarmi sarebbe stato un concerto tranquillo ma mi trovo davanti ad un reading. Circa quaranta minuti di storie che non riesco a seguire ma che il pubblico tedesco ascolta attento e a me pare quasi surreale. Credevo che tranne poche eccezioni il popolo dei festival fosse formato da gente che ha come principale obiettivo l’alcol e le danze e che non è capace di ascoltare con interesse. Pare invece che non sia così.
Il concerto che segue è però la mia più grande delusione del festival, del weekend, del mese.
Sóley è una delle più recenti e graziose uscite della Morr Music. Il suo disco “We Sink” è di una bellezza delicatissima e inquieta ed era perfetto per le giornate malinconiche e sull’orlo di un temporale che spesso avvolgono Berlino. Il concerto, invece, non solo è il peggiore del festival, ma anche uno dei peggiori della mia vita: i suoni sono bassissimi, le canzoni vengono troncate senza troppe cerimonie alla fine dell’ultima nota e i musicisti sembrano intervenire solo per fare la loro parte, come se dovessero semplicemente fare una determinata cosa in un determinato momento e non come se fossero parte dello stesso gruppo, come se dovessero creare qualcosa tutti insieme. E anche il rapporto con il pubblico è disastroso. Le solite (ma spesso necessarie) frasi sull’alzare quel determinato strumento in quella determinata spia sono condite da battute che non fanno ridere nessuno e da commenti inadeguati. Per me è uno strazio e quando arriva l’ultima canzone sono davvero contenta.
Poco più tardi, al concerto dei Sin Fang, altro gruppo Morr Music di cui fa parte la stessa Sóley, mi rendo conto che il disastroso approccio con il pubblico è imputabile forse alla freddezza islandese che cerca di travestirsi da simpatia. Mi tocca sorbirmi un’altra volta un’oretta buona di commenti fuori luogo anche se questa volta sono fortunatamente solo spiacevoli intramezzi in un concerto più che apprezzabile. La provenienza dall’Islanda non traspare solo dal loro interagire con il pubblico ma, e qui è sicuramente un’influenza più positiva, permea tutta la musica dei Sin Fang. Le atmosfere nordiche e i suoni della natura sono amalgamati bene in un’atmosfera corale e con suoni che ricordano gli Animal Collective e altri gruppi degli anni zero.
Ecco, ripensando a tutto il mio ragionamento artistico-sociologico, forse è qui che trovo una delle correnti più interessanti: una specie di ritorno a suoni quasi tribali che vengono mischiati con strumenti odierni, una musica che è un misto di atavico e futuristico. E se gruppi come Animal Collective, Yeasayer e Local Natives propendono per una reinvenzione di suoni di matrice africana, qui sono ancora le atmosfere nordiche a far da padrone. Una cosa che in Italia è stata recentemente fatta dagli Ancher: mischiare suoni e immagini visive per creare un immaginario personale e eclettico allo stesso tempo.
Allo Zeltbuhne stanno per cominciano i Me and My Drummer. Anche qui niente di nuovo. Si tratta di un duo di base a Berlino che cerca di proporre un pop molto elegante e assai incentrato sulla (bella) voce di lei.
Una buona impressione me la fanno anche gli The Hundred in the Hands.
Ma la vera sorpresa arriva immediatamente dopo e arriva per caso. L’unico motivo per cui mi posiziono in prima fila è l’aver fissato lì il ritrovo con un amico che avevo perso per la folla il giorno prima. Del gruppo che sta per salire sul palco non so nulla a parte il nome.
Il concerto dei Tall Ships è ottimo sotto tutti i punti di vista. C’è l’elemento sorpresa, che sempre contribuisce a rendere il tutto più esaltante. Ma c’è soprattutto un modo fantastico di tenere il palco: tecnicamente ottimo, divertito e per niente spocchioso. Sembra che la sorpresa sia reciproca: “E’ la prima volta che suoniamo ad un festival fuori dall’Inghilterra”, dice uno dei tre. Lo dice stupito e grato, rivolgendosi ad un pubblico totalmente partecipe. Sembra di prendere il mathrock dei Battles e quello più leggero dei Foals e mischiarlo con manciate di influenze tutte diverse. Perchè è soprattutto la diversità dei pezzi tra di loro, per una volta, a stupire. Si passa dal pezzo strumentale alla canzone pop, da momenti math a pezzi facilmente e spensieratamente ballabili. Il rapporto che si crea col pubblico è intenso e spontaneo. Alla fine la richiesta dei bis sembra sopraffarli e non solo per problemi di tempo, ma soprattutto per il fatto pratico che, come ogni band ai quasi esordi, il repertorio è già esaurito. Da sotto il palco si guardano increduli mentre si asciugano il sudore dalla faccia. E anche quando salgono sul palco per smontare gli strumenti il pubblico si fa ancora sentire.
Ma il rigore tedesco non ha pietà neanche di fronte a queste piccole sorprese e il festival mi regala ancora due bei momenti. Il primo è il buffo concerto di un gruppo che già dal nome non lascia presagire nulla di serio: Kakkamaddafakka. Sono tanti gli strumenti e sono tanti anche i tentativi di ricreare un’atmosfera festosa. Ma tutti questi tentativi risultano solo grezzi e forzati, come il chiedere insistentemente al pubblico di partecipare a cori e altre banalità . Ma nonostante tutta questa artificiosità il concerto è divertente e poi il festival è quasi finito e io sono stanchissima: mi rimane poco tempo per fare la snob e decido di godermelo e basta.
Molto meglio va con i New Build, gruppo che nel curriculum porta nomi di tutto rispetto come Hot Chip e LCD Soundsystem. E infatti il concerto è un perfetto momento pop. L’unica pecca è che le canzoni sono un po’ tutte uguali (ad esempio continuano ad usare un campanaccio, che tiene lo stesso ritmo per tutte le canzoni). Ma, ripeto, sono alla fine del festival, e oltre ad essere stanca sono anche felice perchè ho avuto tutto quello che volevo: belle scoperte, concerti attesi e cocenti delusioni, birre al sole, danze e post-sbronza sotto gli alberi. Per me l’estate non poteva cominciare meglio.