Di fianco alla voce “band seminale” potrebbe esserci benissimo la foto dei Mission Of Burma. Uno di quei gruppi che, quando si è sciolto nel 1983 causa tinnitus del cantante Roger Miller, ha lasciato dietro di sè solo una manciata di canzoni, dirompenti e troppo avanti per quei tempi. Poche ma buone, visto l’impatto travolgente avuto sulle generazioni successive in ambito rock e non solo. L’infinito numero di musicisti che dichiaravano di aver subito l’influsso devastante ma ispiratore dei loro volumi impossibili, gli apprezzamenti e le continue lodi, cover e ristampe sembravano proprio essere l’unico lascito dei Burma, almeno fino a una diecina di anni fa quando è arrivata, inaspettata come poche, la reunion.
Si sono dati da fare questi signori, dal duemiladue a oggi, sfornando un album dopo l’altro con la passione di ragazzini di primo pelo ammassati in un sottoscala, forse vogliosi di conquistare finalmente almeno un angolino di quel posto al sole che dovrebbe spettargli per anzianità e diritto. E in “Unsound” (che esce per Fire Records dopo la fine del rapporto con la Matador) si divertono ancora a giocare con nastri e strumenti, creativamente pazzi come probabilmente solo i Guided By Voices (che hanno ammesso di dovergli molto) sanno essere. Un pot pourri sonoro, questa ultima fatica, di quelli con talmente tante essenze che indovinarle tutte è impossibile ma, chissà perchè, non si riesce a smettere di provarci. Il naso irrimediabilmente intrappolato a ficcanasare tra il disordine tonificante e gli assoli graffianti di “Sectionals In Mourning”, l’attitudine punk di “ADD In Unison”, una “7’s” che potrebbe essere benissimo uscita da “Nuggets” o qualunque altra compilation garage rock anni sessanta, le sovraincisioni della funky “This Is Hi Fi” e i loop istericamente ripetuti di “Semi Pseudo Sort Of Plan” (tutta farina del sacco da prestigiatore di Bob Weston degli Shellac, ancora una volta sostituto di Martin Swope come manipolatore di suoni).
Non è un ascolto facile o per orecchie distratte quello di “Unsound”, orecchie che difficilmente si abituerebbero ai cambiamenti bruschi e repentini che sono il suo più grande pregio. Ma con questo disco i Burma dimostrano di essere più vivi e dissonanti che mai, ancora in grado di ringhiare e agitare i pugni, smaliziati e piuttosto contenti del rispetto che li circonda, nonostante le preoccupanti affermazioni di Miller (stanco per l’impegno fisico che i concerti comportano, dava alla band non più di quattro o cinque anni di vita) facessero prevedere il contrario.