Il terzo giorno inizia con quel vento forte, che nei libri di fiabe prelude sempre agli avvenimenti magici e soprannaturali: costringe l’organizzazione del Festival, molto attenta alla sicurezza, a spogliare i palchi da tutto il superfluo: fondali, allestimenti e ad un certo punto persino dei megaschermi laterali; restituisce in compenso un’atmosfera incredibile e magica, che insieme al cielo basso e grigio compone una scenografia naturale.
La programmazione si apre con una brutta sorpresa: i danesi electro When Saints Go Machine, che non vedevo l’ora di ascoltare live, hanno la strumentazione ferma a Barcellona, impossibile da sostituire all’ultimo momento per via degli effetti particolari. Mi consolo pensando che non si perdono le valigie solo dei comuni mortali
L’inizio slitta quindi alle 14, con la pop star scozzese Emeli Sandè, il ciuffo biondo che rivedremo esibirsi durante la cerimonia di apertura delle Olimpiadi. Ancora un’occhiata di sole per incoronare l’ennesima sorpresa femminile del Northside: la sua produzione è sì pop, per via delle melodie catchy, facili e dirette, ma è tutt’altro che scontata. Emeli gorgheggia a cappella Do you recognise me, Aarhus e parte con una “Heaven” molto più drum “‘n bass in versione live piuttosto che nel disco. Nonostante l’inizio col botto, il livello della performance non scende, la Sandè è intensa e comunicativa, è un’esplosione di energia incontrollabile, tanto che è quasi impossibile “fermarla” in una fotografia. La voce è black, tecnica e ricca, perfetta senza sforzo nonostante Emeli, come le sue coriste, non smetta un secondo di ballare. Prima di concludere con i due pezzi “Daddy” e “Next to me”, dall’ultimo album “Our version of Events”, che lasciano il pubblico entusiasta e coinvolto, questa sorridente piccola cantante sorprende tutti con un medley di pezzi di Bob Marley rivisitati in una combinazione di reggae e techo-rave.
Palco diverso, ma un’altra piccola, grande interprete femminile: al microfono, Yukimi Nagano, lead singer di origine giapponese del quartetto electropop svedese Little Dragon. Il concerto si apre con “Looking Glass”, che riecheggia di synth e suoni dance anni ’90; la Nagano sembra un delizioso elfo, mentre danza leggera sul palco con un sonaglio a forma di racchetta, stretta in un giubbino jeans con disegnato un unicorno. Il pubblico balla nel vento e nel sole, le prime file alzano sopra le teste dei vasetti di fiori, che erano attaccati alle transenne, creando un effetto surreale e poetico. Tra la folla, impossibile non notare Emeli Sandè e le sue coriste ballare come vere fan. Tra le percussioni campionate, riecheggiano le sfumature orientali della vocalità della lead singer: scorrono “Ritual Union”, “Test”, “Shuffle a Dream” e “Precious,” che regala un cowbell solo, oltre ad una bella intro strumentale. I Little Dragon chiudono con “My Step” un live set intessuto di ritmo, impreziosito dal contributo di Yukimi al coloratissimo drum pad che richiama un gigantesco xilofono colorato.
Quando Bat For Lashes esce sul palco, la prima cosa che mi salta agli occhi, ancor prima della grande eleganza e classe che cantante e band emanano, è la sua somiglianza con Katie Holmes (per fortuna, non spuntano nè Tom Cruise nè Dawson con un microfono in mano). Il vento aggiunge qualcosa all’eleganza naturale di Natasha Kahn e crea un’atmosfera emotivamente enfatica: vederla muoversi lentamente, tenendo con una mano il lungo abito fasciante che vola nell’aria, notare l’intensità dei suoi gesti misurati, rende l’esperienza musicale quasi mistica. I brani del live, tratti da “Fur And Gold” e da “Two Suns” sono esaltati dalla gamma vocale ampia che spazia dalla forza ai sussurri, e dal timbro che a tratti si arricchisce di un particolare tocco etnico, che riecheggia anche negli arrangiamenti: “Glass” ha un suono ancestrale. Il live è impreziosito da una ulteriore sorpresa: alle tastiere riconosco Ben Christophers, geniale cantautore e polistrumentista inglese, che avevo avuto modo di apprezzare un paio d’anni fa in apertura di una data danese di Imogene Heap, e che mi era rimasto nel cuore e nella playlist. Nella setlist spiccano una meravigliosa versione di “Prescilla”, accompagnata con autoarpa, con intro di “Blue” di Joni Mitchell e la perfetta conclusione con “Daniel”, che sembra strappata dagli anni 90′.
Dopo un live act di grande intensità emotiva, è il momento dei ritmi accattivanti di una band danese synth rock, divenuta popolare nel 2006 nella scena hipster di Copenaghen e ora in vetta alle classifiche: è il turno dei Turboweekend. Mentre il carismatico frontman Silas Bjerregaard inizia a ballare, io cerco di trovare l’equivalente italiano di questo gruppo: potrebbero essere dei Subsonica degli inizi, più nordici giovani e freschi. Partono con “After Hours”, con un basso decisamente 80’s e un testo niente male. Il timbro vocale del lead singer è particolare e accattivante, come la sua ottima tenuta di palco; la performance potente prosegue con “On My Side” con il suo coretto catchy, che fa innalzare un unanime uh-uh-uh dal pubblico. Mentre mi distraggo un attimo, viene invitato sul palco un “signore” a me ignoto accolto a furor di popolo come una star; non capendo nulla dell’idioma locale, faccio ancora una volta la figura della cretina, chiedendo ai “Danes” più vicini di chi si tratti: scopro quindi trattarsi di Steffen Brandt, della popolarissima band anni 80 pop-rock TV-2, nata proprio ad Aarhus. Praticamente la band danese più famosa di tutti i tempi. I Turboweekend omaggiano la scena locale duettando con Brandt sulla sua classica “Be Bab A Lu La”. Silas &co dimostrano un eccellente controllo della folla, facendo saltare tutti sul prato infangato su “Hoilday” e sulla opening track del nuovo album, “Fault Lines”, chiudendo con una eterna e ipnotica “Trouble Is”, che ci lascia tutti senza voce e con le mani al cielo plumbeo.
E poi sì, c’è anche lui. Immancabile, come in ogni concerto di un certo livello, si materializza un uomo nudo, calvo e ubriaco, che dà spettacolo creando il vuoto intorno a sè. Cheeeeck!
Si cambia completamente mood, oltre che palco e il ragazzetto inglese dall’apparenza timida e sfuggente, che si siede alle tastiere, è il James Blake (accompagnato dai suoi soliti tastierista e batterista),di cui tutti i musicofili trendy si riempiono la bocca e che sono tanto curiosa di sentire. Quando con il suo synth Profet attacca “Unluck”, la potenza dei sub e l’assistere ai diversi campioni che si armonizzano con gli strumenti, mi fa subito rendere conto dell’esperienza intensa in cui mi sto immergendo, esperienza ben più coinvolgente che non l’ascolto del disco. Con “I Never Learnt to Share” Blake mostra come l’uso costante dell’auto-tune come effetto abbia un’ottima resa live e tra vibranti suggestioni minimal e campionamenti, scorrono “Lindisfarne I” and “Lindisfarne II “e gli echi più soul di “CMYK”, “Limit To Your Love” e “Klawierwerke”. L’intensissimo live viene coronato dalla cover di Joni Mitchell ” Case Of You”, in cui Blake, rimasto solo sul palco, lascia spazio in maniera commovente ai suoi colori vocali più soul, da stretta allo stomaco.
Mentre sta per iniziare l’unico momento della line up sul quale posso senza remore dichiararmi diffidente, decido che dopo i tre pezzi di ordinanza per le foto, finalmente, per la prima volta nel giro di tre giorni, andrò a mangiare. Il panico e lo stato di fibrillazione in cui il live di Noel Gallagher’s High Flying Birds, (nuovo progetto di metà degli Oasis) ha precipitato lo staff del Festival, non fa che confermarmi nelle mie intenzioni: ci sono regole severissime, abbiamo una distanza misurata dal palco nella quale possiamo stare e veniamo avvertiti di non entrare nel suo campo visivo, altrimenti He freaks out. Bah. Sono consapevole di trovarmi di fronte ad un cantante dei primi videoclip che guardavo su MTV (anzi su The Box), e ricordo di aver imparato a strimpellare la chitarra con “Wonderwall” (MIIII- SOL RE LAAAA), quindi sono comunque piuttosto curiosa. Freddino: freddino il vento, gelido e criptico lui, come sempre. Freddino il pubblico. “Dream on” non è male, ma il pop radiofonico di questo genere non mi entusiasma; lui è decisamente poco coinvolgente e ha gli occhi meno aperti di Bud Spencer, quindi effettivamente, vado a mangiare. Ma, mentre sulla collina mi stupisco, sentendo “Half The World Away” e “Little by Little” (non pensavo avrebbe fatto pezzi degli Oasis), mi colpisce così, a tradimento “Don’t Look Back in Anger” che fa lo stesso effetto di certi profumi, di certi deja vu di un tempo passato: mollo il panino e corro giù per la collina, nel singalong generale, pensando tra me che almeno questa me la posso concedere in memoria dei vecchi tempi.
Improvvisamente sotto palco si sta più larghi, l’area Festival si è piuttosto svuotata, lasciando dietro di sè una maggioranza di ragazze, di veri appassionati di musica e di ubriachi troppo ubriachi per ricordarsi che la Danimarca sta giocando contro la Germania per gli Europei. Anche il palco è ormai decisamente spoglio, persino i megaschermi sono stati tolti, perchè rischiavano di essere pericolosi per il vento (ah, l’estate danese!), ma nella prima serata che qui ha ancora la luce del pomeriggio, a rompere il grigio arriva una fiammata rossa: sale sul palco Shirley Manson. I Garbage tornano dopo un silenzio di 7 anni con un nuovo album “Not Your Kind of People”, e sono di nuovo loro, 3 famosi musicisti/produttori americani (ricordiamo che Vig ha prodotto “Nevermind”) e una splendida ragazza scozzese di 46 anni. Shirley inizia con “Automatic Systematic Habit”, parla molto con il suo pubblico, racconta di essere anche un po’ emozionata: traspare una maturità diversa, ma alle prime note di “I Think I’m Paranoid” si scatena: il pubblico non ha occhi che per lei e per la sua sapiente gestualità da rockstar (mi torna improvvisamente alla memoria il mio cd singolo nella bustina di cartone). L’atmosfera è già calda e si prosegue con il tipico suono rock, post grunge di “Why Do You Love Me”, “Queer” da energia alla voce sempre da regina del palcoscenico, canta “Stupid Girl” e la guardo incredula pensando che non po’ avere quasi 50 anni. Ascoltando la perfetta conclusione con “I’m only happy when it rains” (gioia a palate per loro in Danimarca) devo constatare che ok, i pezzi che scaldano di più l’audience sono i singoloni 90’s, ma questo live dopo anni, non puzza di reunion stantia del tempo che fu, ma di un nuovo, gradito ritorno.
Il Northside festival si avvia alla conclusione con gli ultimi headliner: non conosco bene gli Snow Patrol e forse per questo non ho aspettative altissime, le loro ballatone da telefilm non mi hanno mai detto molto. La cosa sorprendente dei live è che ti permettono di cambiare idea. Tra molte chiacchiere e ironici scambi di battute col pubblico, già da “Hands On”, mi stupisco della verve da showman di Gary Lightbody e della grande generosità artistica che dimostra da subito, come un padrone di casa che accoglie il suo pubblico e lascia intendere di non volersi trovare in nessun altro posto al mondo se non su quel palco. Rimango definitivamente conquistata vedendo la reazione equilibrata, l’atteggiamento positivo e spontaneo con cui Lightbody affronta una serie di problemi tecnici che manderebbero nel panico molte “primedonne” della musica: non si scompone, ironizza e canta, solo voce e piano, “Dark Roman Wine” prima che il resto della band rientri (mi scappa da ridere pensando cosa sarebbe successo se al suo posto ci fosse stato Gallagher, sullo stesso palco solo poche ore prima)
La tensione emotiva è quasi esagerata sia da parte dei fan con accendini e mani a cuore, sia da parte di Gary, che dedica una canzone alla Danimarca, ringraziando per questi 18 anni di carriera; ma è tutto talmente sincero e spontaneo da essere disarmante, è impossibile non lasciarsi coinvolgere. La band di Belfast regala i suoi migliori pezzi: “Chasing cars”, una toccante “Life-ning” dedicata da Lightbody al padre che è quasi una preghiera di ringraziamento,” Just Say Yes” e una “Shut your eyes “fatta sussurare al pubblico che si conclude con l’esclamazione: It was sooo fucking sexy. Non partendo personalmente coinvolta dalla band, è stato meraviglioso lasciarsi conquistare: alla fine del concerto sono soddisfatta e ho la sicurezza di avere assistito ad una conclusione col botto.
Ma le sorprese non sono finite. Quando ormai tutta la folla sciama lentamente verso l’uscita, con quella pesantezza data un po’ dalla stanchezza e malinconia da fine festival, un po’ dal fango che impantana le scarpe, vedo qualcosa che per me è totalmente nuovo: il pubblico esce dai cancelli applaudendo, in segno di ringraziamento, lo staff e la security schierata, come fossero le vere star; il personale sorride imbarazzato e saluta con la mano. E’ strano e mi piace. Se ya next year, Northside.