Matthew Dear è nell’ordine: un DJ, un produttore musicale, un artista pop sperimentale e un maestro d’orchestra. Per quanto riguarda la sua ultima pubblicazione, questo sorprendente “Beams”, si può dire che sia tutte queste cose messe insieme. Altra cosa da sapere, il musicista, oltre ad essere Matthew Dear, è anche 3 altri moniker: Audion, False e Jabberjaw.
è insomma un’artista poliedrico che in questi dieci anni si è dato molto da fare qualsiasi fosse la sua identità artistica, coprendo un ampio spettro sonoro che va dalla club music alle radio edit. Considerato anche il numero di musicisti che si è affidato a lui per vedere remixati i propri pezzi, dai The XX, Charlotte Gainsbourg, Hot Chip, Chemical Brothers, vi sarà sicuramente capitato di inciampare non di proposito in qualcosa composto dal Sig. Dear. Spulciate nella vostra memoria e vedete se non ho ragione. E se non ce l’ho pazienza, vuol dire che avrete un motivo in più per leggere questa recensione.
Siamo ormai lontani dagli esordi micro-house e minimal techno di “Leave Luck to Heaven” e “Asa Breed”, dove l’interesse di Matthew Dear era tutto rivolto al dancefloor. Nel corso degli anni, anche grazie alle varie esperienze con i suoi progetti paralleli, Dear ha modificato la sua proposta e la destinazione d’uso della sua musica. Da “Black City” del 2010 la svolta, con l’attenzione rivolta alla ricerca di un compromesso tra la sempre ricercata forma canzone del pop e la techno music degli esordi. Alcune prove erano già state fatte in “Asa Breed” del 2007, dove Dear da un lato si preoccupava di sviluppare la minimal-techno degli esordi ma dall’altro già cercava una prima forma di emancipazione dalla club music, cimentandosi in registri a lui inediti come il funk, il sunshine pop, la new wave e anche il folk.
Con “Beams” Matthew Dear aggiorna nuovamente la propria mazzetta colori. Messe da parte le scale di grigio di “Black City”, ritorna ora in primo piano con un set cromatico eccentrico ed espressivo. Già l’artwork è l’antitesi dell’album precedente: ampie e vertiginose pennellate si incrociano su una tavolozza variegata a ritrarre un Matthew Dear impassibile. E queste pennellate non sono solo visive ma soprattutto sonore, “Her Fantasy”, il primo singolo estratto, si regge su un ritmo funk , campionamenti tropicali attraversati da synth poderosi, e dal profondo crooner di Dear (mai così profondo prima ad ora) ad unire tutti i pezzi.
Matthew Dear, in questo suo ultimo album, sviluppa i migliori episodi di “Black City” ed “Asa Breed”, dell’uno porta avanti la ricerca di groove sempre più accattivanti continuando sulla strada di brani come “I Can’t Feel” e “Soil to Seed”, mentre del secondo continua la sperimentazione dei vari registri stilistici e ne approfondisce l’introspezione allora appena abbozzata. Da questa alchimia nascono brani di ottimo pregio come “Her Fantasy”, “Earthforms”, “Fragile is Futile” e “Overtime”, mentre dal punto di vista introspettivo la sghemba confessione di “Ahead of Myself” e la sottile disperazione di “Shake Me” sono figlie lontane di quella spartana “Midnight Lovers” che col tempo è maturata generando due buoni frutti.
Messa una pietra sopra sulla techno degli esordi, “Beams” rappresenta l’approdo naturale di Matthew Dear al pop, ed è all’attivo il miglior album della sua carriera.