Il secondo giorno del Northside Festival non è ancora iniziato e, correndo lungo il sentiero pedonale disseminato di dj-set e stand bio-eco-green, già mi rendo conto che non sopravviverò a questo ritmo da cardiopalma e che, anche oggi, mi nutrirò solo di Twix.
Arrivo sudata trafelata e agitata all’intervista, organizzata via sms, con i Bombay Bycicle Club, che si rivela una prova durissima: manager puntigliosi, biglietti da visita scomparsi e ansia da prestazione si aggiungono alle loro risposte a monosillabi.
Il primo live di una giornata, che farà vacillare i miei pregiudizi sul pop, è l’ennesima tessera che compone il sorprendente ed entusiasmante mosaico della scena danese che sto conoscendo. La cotonatissima e algidaleadsinger dei The Asteroid Galaxy Tour, band di punta del pop danese, intona “Golden Age” sul palco che divide con una massiccia presenza di fiati: mi accorgo di riconoscere nella scaletta sigle di show e serie tv, e brani usati per varie pubblicità .
Un’atmosfera completamente diversa ci aspetta all’altro stage, dove i Bombay Bicyle Club si esibiscono con quella timidezza che sfuma nella spocchia, che li ha resi una delle band simbolo della scena indie londinese. Mentre, seduta sul prato in un’atmosfera serena e surreale del sabato pomeriggio, insieme ad altre migliaia di persone li ascolto sussurrare i loro pezzi più belli, mentre batto le mani su “Shuffle”, non posso fare a meno di pensare con disappunto: Siete odiosi, vi ho detto nell’intervista che il mio pezzo preferito è “You Already Know” e non lo fate?
Nemmeno il tempo di rendermene conto, e la voce di Jesse Huges mi scuote dal precedente clima intimo e sognante: gli Eagles of Death Metal si presentano nel loro prorompente vortice di ironia, alternative rock, pseudonimi e chiacchiere. La band californiana tra “Bad Dream Mama”, “Cherry Cola” e “Wannabe in L.A.” mi ricorda cosa significa saper tenere la scena; mentre penso che sì, c’è un motivo se quel vecchio satiro di “The Devil”¨” è famoso per come coinvolge e interagisce col suo pubblico, mi arriva qualcosa in testa e mi guardo intorno per capire da dove: Jesse Huges smette di cantare, mi guarda e ammiccando mi chiede Baby, are you ok? I saw you a bit lost”…. A stento realizzo che sta parlando con me, lo rassicuro e ancora non so se ridere o morire di imbarazzo quando scivolano via “I Only Want You”, “Speaking in Tongues” e gli altri pezzi che sono stati colonna sonora di videogiochi e trailer.
A giudicare dalle teenager urlanti, mi convincoche Lukas Graham sia una specie di Justin Bieber danese più grassottello e lo aspetto con un po’ di scetticismo;la sua splendida voce soul, però, crea il silenzio con il primo brano. Questo insignificante ragazzino, ex star della tv, è letteralmente un idolo della folla, un tesoro nazionale, canta un pezzo a cappella e,guardandomi intorno, vedo che tutti stanno cantando: non solo le ragazzine, ma energumeni dallo stile hip hop, hipsters, coppie di mezza età . Iniziano a rimanermi in testa le orecchiabili “Happy She Left You” e “Drunk in The Morning” e faccio una riflessione sociologica: in Italia un artista così commerciale e pop non sarebbe mai così seguito e amato da un pubblico vario, che comprende anche quello esigente e di nicchia. Ma allora quando il pop è di qualità , ascoltarlo non è peccato?
Arriva il momento più “caldo” del festival, è il momento di Suspekt, la discussa crew hip hop danese formata da famosi produttori, che collabora con L.O.C. Rappano in danese, così non posso leggere i testi e fatico a farmi un’idea di quelli che mi sono stati descritti come “bad boys”, pazzi e trasgressivi, estremi, ma che durante l’intervista della mattina, mentre mi parlavano di produzione e collaborazioni artistiche mi erano sembrati dei ragazzoni un po’ tamarri ma affabili e cordiali.
Appena inizia quello che è un vero proprio show d’impatto teatrale, con fiamme sul palco, performer incappucciato e i bassi delle casse che mi fanno tremare lo stomaco nonostante i tappi, mi si chiariscono le idee. Mi rendo immediatamente conto di che fenomeno sia la scena hip hop per la Danimarca; non capisco una parola, ma il sound è “da paura” e inizio a realizzare perchè il loro stile sia stato definito “horrorcore”: sesso, violenza, istinto e trasgressione non hanno bisogno di traduzione. Durante uno dei pezzi, salgono sul palco due sexissime vallette “svestite sadomaso”: in una mano il gatto a nove code, con l’altra tengono al guinzaglio due uomini mascherati che sparano Jagermeister su una folla impazzita. Ma questo show, sogno di ogni fotografo, non è finito: al culmine dell’eccitazione (anche degli mc), sale sul palco una fila di ragazze vietnamite vestite da suora, che si spogliano e rimangono seminude a ballare sul palco. What Else?
Credevo ormai di avere visto tutto, ignara che mi aspettasse il migliore live del festival: suite up, arrivano The Hives. Mentre il batterista si arrotola le maniche dell’elegantissima camicia, rifletto che sono ormai in giro da 10 anni, chissà se hanno ancora la celebre verve che li ha fatti proclamare una delle migliori live band attuali… Esplodono i primi riff di chitarra e rimango a bocca aperta, sbalordita dalla furia dei fratelli Per e Niklas Almquist, incredibili animali da palcoscenico. La garage rock band svedese spara una setlist da best of, e durante “Hate to say I told you so”, “Thik thik Boom”, “Walk Idiot walk” e “Main Offender” regala il migliore repertorio da rockstar, tutto ciò che vorresti vedere quando paghi un biglietto;”Howlin’ Pelle” non sta fermo un secondo, elegante e scalmanato insieme: rotea il microfono, si arrampica sui pali del palco, salta sulle casse, scavalca le transenne e fa persino accucciare tutto il pubblico; Nicholaus Arson sfodera i suoi migliori sguardi da pazzo, lecca le corde, suona col naso. Oh mio Dio.
I Kasabian sono attesissimi, sono ormai cresciuti ed affermati: sarà che suonare dopo gli Hives e reggere il confronto è dura, ma ascoltando “Days Are Forgotten”, “Shoot the Runner”, “¨”Let’s Roll Just Like We Used To” “¨e “Goodbye Kiss” ho la sensazione di assistere ad una performance bella ma ordinaria, poco espressiva. “L.S.F.” è sempre un pezzo incredibile, la cover di “She Loves You” dei Beatles è una perla, ma mentre concludono con “Fire” li trovo un po’ monotoni.
Persino nel backstage gli irriducibili più indaffarati, che non hanno assistito a nessun live, sospendono le loro attività al grido di Non posso perdere Malk de Koijn, celebrità dell’hip hop danese; mi rendo conto della “dimensione del fenomeno” solo quando vedo nelle prime file una ragazzina pronta a lanciare delle mutandine di pizzo. Vista l’atmosfera elettrica mi aspettavo qualcosa di diverso, quando escono tre personaggi, circa dieci anni di carriera alle spalle, piuttosto anonimi; anche il sound, se pur gradevole e ricercato, con digressioni nel funk, mi sembra meno coinvolgente di quello di Suspekt e cerco di spiegarmi l’incredibile entusiasmo della gente, anche del pubblico più esigente e ricercato. Julie, fotografa danese dello staff, mi spiega che la loro grande forza sta nei testi, nell’uso innovativo del danese, per il quale hanno raggiunto i vertici delle classifiche e ottenuto moltissimi premi e riconoscimenti. La band, raggiunta la notorietà nel “’93 grazie alla diffusione nell’underground dei nastri registrati, combina humor e termini antiquati in testi brillanti.
E’ sera e sono veramente curiosa ed eccitata all’idea di vedere sul palco, a nemmeno un anno dalla reunion, gli Stone Roses, i pionieri di un movimento, il pezzo di storia senza cui non avremmo avuto ilbrit pop: la voce di Ian Brown richiama immediatamente antiche memorie, caschetto e viso scavato, lo sguardo non è solo strafottente, ma anche un po’ fisso. Gli anni non si fanno sentire dal punto di vista strumentale, ma anche se il pubblico riconosce e canta “Sally Cinnamon”, “Ten Storey Love Song” e “Bye ByeBadman” il live è nel complesso piacevole ma un po’ freddo e monocorde.
Alle prime note di “I Wanna Be Adored” non riesco a non entusiasmarmi e, nonostante tutti i problemi che lo staff personale degli inglesi ha creato a noi fotografi, mi godo “Shoot You Down”, “Waterfall”, “She Bangs the Drums”, “This is the One” e il finale con “I am The Resurrection”. Bello esserci stati, ma IanBrown sembrasvuotato di energia.
Gli headliner del giorno sono i Kashmir e mentre l’attesa è scandita dalla folla che urla all’unisono Kash-mir! Kash-mir!capisco cosa significa essere la band con cui ogni ragazzo danese è cresciuto e che ancora è la più amata. Kasper Eistrup, con il suo caratteristico cappellino da baseball storto, ha un’espressione riflessiva e intensa, dialoga con i suoi fan e canta “Mudbath”, “Graceland”, “It’s ok now” in un crescendo di emozione: mi guardo indietro e vedo senza distinzione espressioni rapite, occhi chiusi, sguardi riflessivi e non poche lacrime. “Mom in love Daddy in space”, “New year’seve” e “Henrik Lindstrand” fa le magie col theremin. Difficile non accorgersi di quanto questa band significhi per il danese medio, tanto che, dopo “Miss you”, non appena partono i primi accordi, ricevo un sms di un amico, che mi scrive Hey, dalla mia finestra di casa riesco a sentire “Lampshade”.