Dove eravamo rimasti? Tre anni lunghi quanto un’eternità separano “Shields” da quella perla nera dell’indie rock contemporaneo chiamata “Veckatimest”. Nel mentre si sono avvicendati EP, progetti paralleli, soundtrack varie atti a mitigare l’attesa ma che invece hanno avuto il risultato di spazientire ancor di più gli estimatori. Fin quando a metà agosto arriva “Sleeping Ute”. Ecco allora che il verbo si fa carne, la relatività ristretta diviene improvvisamente più familiare e questi tre anni tutto sommato sono volati via in un battito di ciglia.
“Sleeping Ute” dà una spolverata alla memoria e riprende esattamente da dove i Grizzly Bear avevano chiuso con “Veckatimest”, un biglietto da visita chiaro che sembra proprio dire “hey, siamo tornati”, anzi “non siamo mai andati via”, e infatti l’opening track di “Shields”, quarto album della band di Brooklyn, fa il punto della situazione. Dove eravamo rimasti, dunque? Ad un suono caratterizzato da un’architettura rigida ma estremamente passionale, un puzzle perfetto dove ogni strumento è attore fondamentale di tutta l’intricata trama imbastita da questi quattro ragazzi, sarti esperti nel realizzare seducenti texture adoperando tagli inediti e cuciture impercettibili. I Grizzly Bear nel 2009 ci avevano insomma lasciato in eredità la migliore testimonianza del loro mestiere, e oggi da lì ripartono per portare avanti il loro discorso musicale.
“Shields” è una costola di “Veckatimest”, ha la sua medesima struttura ma da esso si allontana un poco, esibisce una texture a maglie larghe, a cui viene sciolto qualche nodo e allentato qualche filo. Si respira in “Shields”: si aprono le finestre e si lascia che il pregiato arazzo prenda aria e si ossigeni attraverso timidi spiragli, partendo sin da “Speak in Rounds” in cui i Grizzly fanno letteralmente parlare a turno i vari strumenti i quali, invece di incastrarsi si rincorrono in staffetta, diluendosi poi in “Adelma”, una sorta di cerniera che conduce l’ascoltatore a “Yet Again”, fugace esperimento ambient sul modello classico di “Another Green World”.
Tale cambiamento influisce anche sull’umore, per la prima volta nella loro carriera i Grizzly Bear accennano ad un sorriso. Il ripiegamento su di sè, certa angustia che caratterizzava molti brani di “Veckatimest” come “Fine for Now” e “Foreground” lasciano spazio alla piacevole eccitazione di “Yet Again” e al trionfale disincanto di “Sun In Your Eyes”. Per non parlare della sorpresa del disco, “A Simple Answer”, un brano folk muscolare e sfacciato, che non sembra affatto un brano dei Nostri, ma pare sottratto al repertorio di Andrew Bird in duetto con Villagers.
L’introduzione di tali correzioni al loro stile ne ha ridimensionato la portata; barattando quella tensione e quei climax emotivi che ben distinguevano “Veckatimest” con una loro versione più inoffensiva, dalle spigolature smussate, i Grizzly Bear sono ora più disinvolti, più vicini alla definizione di un loro standard qualitativo.
Per concludere “Shields” non è ai livelli del predecessore, manca completamente dei picchi emotivi che lo caratterizzavano, ma comunque si difende bene e conferma nuovamente la bravura dei Grizzly Bear come cesellatori di perfetti brani pop.
In attesa di una evoluzione più audace, “Shields” è un ottimo rompicapo per continuare a congetturare sul futuro di questi ragazzi, in quanto non siamo ancora convinti che abbiano detto tutto quello che avevano da dirci.