I Taras Bul’ba (nome mutuato dall’omonima novella di Nikolaj Gogol’) sono attivi dall’ormai lontano 1996 e, con vari e fisiologici cambi di line-up, hanno raggiunto il traguardo del quinto lavoro in studio. La loro idea di musica è rimasta comunque piuttosto chiara: musica strumentale estremista, radicata su matrici hardcore, noise e funk ma aperta a ogni eventuale contaminazione.
“Amur” è disco cupo e gutturale, fatto di suoni distorti e maniacalmente fragorosi di un mondo ormai al collasso, dove si sentono voci in lontananza, urla stridenti che si mescolano ai clangori degli oggetti mangiati dall’incendio. Un fuoco che distrugge e fonde tutto ciò che incontra, alzando una fitta coltre di fumo che ottunde i sensi dell’ascoltatore manco si trovasse nella Mosca alle prese con l’avanzata delle truppe napoleoniche. Forte infatti deve essere l’influenza della cultura sovietica sui componenti della band, come si evince qua e là nei titoli di alcune composizioni (“Ogro”, “My name is Igor”, “Ior”) e dalle atmosfere che si respirano. Se avete pensato per un secondo al sentimento dei cuoricini rossi, lasciate stare; qua ci troviamo in territori di confine, aspri come solo le terre della Mongolia sanno essere, dove nascono pesci immensi e spaventosi che si nutrono di putridume e sogni di gloria terrena infranti. Il tempo scandito da un blues di anime morte che si impasta ai rumori siderurgici del funk, spruzzandoli fugacemente di math rock (che è sempre cosa buona e giusta da quando imperversano i Battles).
“Amur” è un “fatiscente catafalco” che apprezzerete se le vostre orecchie sono già sintonizzate su certe frequenze altrimenti lo troverete dannatamente rumoroso e noioso, perchè qui siamo di fronte ad un disco di genere senza vie di scampo.