The book of love has music in it / in fact that’s where music comes from cantavano i Magnetic Fields tempo fa (e poi Peter Gabriel). E i Mumford & Sons sono indubbiamente al secondo capitolo di un libro che viene rieditato solo in periodi decisivi della storia dell’ “editoria musicale”, per restare nella metafora. Un libro la cui la prefazione non ci era stata esplicitata prima di “Sigh no more”, che aveva già chiarito come era andate le cose a Marcus: male, e le canzoni testimoniavano questo, un amore non corrisposto.
Ora si volta pagina, e il passo è quello dell’attesa: emblematica “I will wait”, la più legata all’album precedente dal punto di vista musicale, struttura tipica, sequenza di accordi familiare, eppure potente nel dare il tono generale a tutto l’album. Un’attesa che è piena di speranza: “So give me hope in the darkness that i will see the light” (da “Ghosts that we knew”) e poi “And my heart was colder when you’d gone / I lost my head but found the one that I loved” in una “Whispers in the dark” che testimonia come si possa uscire più forti dai momenti di debolezza e che quello che facciamo non determina quello che siamo (cit.).
Un’attesa, infine, che è un lasciarsi fare: cause I feel numb, beneath your tongue / “‘neath the curse of these lover’s eyes (“…) And I’ll walk slow, I’ll walk slow / Take my hand, help me on my way (“Lover’s eyes”) e poi Keep my eyes to serve, my hands to learn (“Below my feet”), perchè come accade molto spesso le proprie forze e la propria volontà non bastano”…
“Ok, ma parlando di musica?” potrebbe dire qualcuno. Sì perchè in fondo questa è una storia, un racconto, la vita di un uomo e basta, bisogna vedere cosa c’è di buono musicalmente”… beh, se dal punto di vista lirico i nostri 4 gentlemen di Londra hanno capito veramente tanto, dal punto di vista musicale hanno capito di più”… rispetto all’album precedente, sia ben chiaro. Loro sono rimasti i sempliciotti che si sposano su un trattore, che schitarrano nei campi e che si rompono le dita in birreria, e in parecchie canzoni non si notano dei cambiamenti. Ma il rischio della monotonia, ormai, è quasi roba passata.
I piani e i forti sono usati sapientemente, sin dalla title track “Babel”, e poi “Lover of the light”; il banjo emerge a ruolo di protagonista, è il caso di “I will wait”; le canzoni più “tranquille” non culminano per forza in un crescendo noioso e spietato, ma mantengono la loro dignità silenziosa, come in “Ghosts that we new”, dove gli echi degli Avett Brothers sono inconfondibili; sanno essere romantici, ma sanno essere cattivi e spaccare gli strumenti, come in “Hopeless wanderer” e “Broken crown”.
La deluxe edition è essenziale per capire l’album. Tre brani che hanno il dolce sapore di un tributo a Simon and Garfunkel: “For those below” per ispirazione, ed è forse la più bella di tutte, “The Boxer” perchè è una cover, strana ma interessante per l’armonizzazione (anche vocale), “Where are you now” per essenzialità . E qui si conclude il capitolo di cui sopra; si chiude con un’anticipazione, una domanda rivolta direttamente a “lei”: where are you now? Do you ever think of me in the quiet, in the crowd?“… non ci rimane che aspettare di poter voltare pagina.
Ci sarà un motivo se dal vivo sono meglio che in studio: e il motivo è che alla gente piace cantare le loro canzoni. Sono abili nel riuscire a compensare le carenze musicali con testi meno rozzi e più radicali: un unione perfetta, che poi è il folk. Il folk, la storia d’amore di un uomo che viene tramandata lungo gli anni”… di un uomo e basta? Di un uomo soltanto?