Difficile riscontrare gli stessi livelli di espressività dei Balmorhea in altri lidi puramente strumentali. Rob Lowe e Michael Muller sono stati capaci di fare con meno enfasi quello che i Mono hanno fatto del post rock: sinfonie orchestrali, strutture stratificate in crescendo, cavalcate soniche che esplodono fragorosamente. Come racchiudere mille sensazioni in uno scrigno e aspettare che si rompa in un attimo quando la misura è colma. “Stranger” cambia qualcosa, mettendo da parte una buona fetta della componente ambient, relegando il pianoforte ad un contorno e affidando alle chitarre il ruolo primario. I risultati più tangibili sono nelle asperità di brani come “Feak Fealty”, dove gli spigoli non sono smussati e le progressioni orchestrali procedono di pari passo alle ruvidità delle chitarre. Il percorso si costituisce di passaggi quasi math rock eppure dotati di una grazia infinita, grondanti sentimenti sospesi su un vuoto violento e ossessivo.
Quando le cose sembrano precipitare in un vortice capace di fagocitare tutto, arrivano le pause; il morbidissimo tocco di semplici note messe in fila creano invalicabili muri di malinconia più o meno dolorosa, come se fosse il contrappeso di qualcosa troppo difficile da gestire. Montagne russe, schiaffi e carezze, precipizi e ripide salite. Da qualche parte in Texas deve per forza esserci un tramonto livido come quello descritto dalle chitarre liquide di “Jubi”; deve esserci perchè altrimenti sarebbe impossibile descriverlo con una strumentazione nemmeno troppo ricca, anche se le sezioni d’archi regalano generose progressioni sinfoniche. Il gioco di contrasti è forte, un ruolo primario lo svolgono le ambientazioni sconfinate,in cui è bello immaginare possano adagiarsi le dieci composizioni in scaletta.
Un viaggio bellissimo, un sogno ad occhi spalancati oppure il migliore dei modi possibili per assaggiare la notte. Un passo in una direzione apparentemente nuova, ma che sotto nasconde le solite, indispensabili grandi emozioni.