I Grandaddy non si sono mai sciolti veramente, il loro spirito ha continuato a vivere nei lavori di Jason Lytle che, in fondo, della band era qualcosa di più che il semplice frontman, molto di più. Così come i Grandaddy sono stati molto più che una band “indie”, infatti hanno incarnato perfettamente lo spirito (e l’iconografia) e creato il suono che hanno dato il nome ad un genere che ha segnato e, ineluttabilmente massacrato, un decennio. La California dei garage bassi sotto il sole bianco, l’abbigliamento da boscaioli, le barbe lunghe, la bassa fedeltà applicata ad un’anima pop molto biascicata e svogliata, erano indie. Mentre la California delle bagnine pettorute, delle spiagge assolate, dei costumi sempre più ampi per lui e sempre più risicati per lei, il pop meccanicamente intonato erano mainstream. Da quella sorta di guerra fredda non ci siamo ripresi per anni, oggi tutto si è mescolato, tutto si è sinergizzato, non si indossa più una sola divisa perchè si indossano tutte le divise a seconda dei giorni, la raccolta differenziata dello stile che fa rimpiangere le barricate come fossero tenui carezze.
Jason Lytle non ha mai smesso di essere sè stesso, nella vita come dietro al microfono, ha continuato a vestire nello stesso modo, si è trasferito in Montana una volta chiuso il capitolo Grandaddy nel 2006, forse fiaccato dal global warming chissà , e ha continuato ad amare il pop, il folk e l’elettronica minuta, la sua unica, sola e nuda chitarra elettrica. Ha pubblicato così nel 2009 “Yours Truly, The Commuter”, disco a dire il vero deboluccio, uno zuccherino per i fans feriti dalla dipartita della band madre.
“Dept. of Disappearance” smentisce chi pensava ad un inesorabile declino, Jason ha ancora tanto da dire e voglia di fare (aggiungeteci che i Grandaddy sono tornati a suonare insieme). Solo ad un primo ascolto si potrebbe credere che ci si trovi di fronte ad un esercizio di (bello) stile, perchè questa nuova fatica di Lytle è una raccolta di brani incisivi, melodie piene e avvolgenti, robusti pezzi indie rock, ballate struggenti e qua e là qualche bel riff a dare la scossa. Poi quella voce così semplice e confidenziale (qualcuno ha smosso sua maestà Neil Young, non pare una bestemmia) che serve a scuotere gentilmente l’ascoltatore che pensava di andare col pilota automatico e che invece si ritrova a sorridere e godere di un disco bello.