Annunciata in pompa magna da mesi, la seconda edizione della parentesi europea del Pitchfork Festival vede non poche differenze rispetto a quella dell’anno precedente, a partire dall’estensione da due a tre giorni di concerti, fino a quella più lampante, riguardo una sfilza di nomi veramente eccellenti. Un’attesa, pompata come al solito con la consueta solerzia dal Forcone, che verrà ripagata a dovere.
Giungo sul posto (un antico macello nel contesto del Parc de la Villette, una megalitica struttura di epoca industriale rimessa a nuovo per eventi del genere, postone insomma) e capisco solo al terzo live come andranno avanti i successivi tre giorni: una staffetta continua tra due palchi nella stessa, immensa sala da concerti, posti ai due lati opposti della pianta rettangolare dell’edificio: finito un concerto inizia l’altro, e dall’altra parte della sala partono traslochi di strumenti e soundcheck vari, con conseguente pubblico sballottolato da una parte all’altra ad ogni nuova partenza. L’organizzazione è pressochè ineccepibile e i concerti inizieranno quasi tutti puntuali. Ineccepibile, peraltro, è l’acustica dei live, curata al dettaglio, ma mai quanto le luci, insolitamente accurate per un festival di tali dimensioni.
Un ritardo involontario mi fa arrivare sul posto solo a metà del set di How To Dress Well, a cui spetta l’onore di aprire le danze intorno alle 17 circa. Poco male, per quanto buone le intenzioni dell’artista di Chicago, il suo falsetto perforante non mi ha mai convinto del tutto, e mi spinge a fare un giro al fornitissimo banco della Rough Trade. Terminato il primo live mi dirigo verso il secondo palco, dove in breve tempo ha inizio il live degli inglesi Aluna George, giovanissimo duo alt-pop per cui nutro dell’entusiasmo. I due, all’attivo solo un EP e un singolo, presentano svariati pezzi, noti e non, in un set piuttosto breve ma molto piacevole; stupisce sia tutto suonato, con quattro elementi sul palco compresa la vocalist Aluna, della quale una volta superato il trauma per outfit e movenze varie (una roba a metà tra le TLC e le ragazze di “Non è la Rai”) si apprezza comunque la presenza scenica. I successivi DIIV, di cui avevo snobbato l’ascolto, si rivelano una delle sorprese del festival, così come i Factory Floor, che in un’ora di live sdipanano un vortice di noise, percussioni e macchine roboanti in quella che forse è stata la vera grossa sorpresa del primo giorno. Un live ipnotico e velocissimo indeciso tra techno e industrial, l’unica pecca che gli si potrebbe imputare sono dei visual un po’ sciapi e poco d’effetto, ma si perdonano facilmente.
I Japandroids avevo già avuto modo di vederli un paio d’anni fa a Roma, insieme agli Health, e nonostante tra i due preferissi di gran lunga i secondi il duo canadese riuscì tuttavia a fare umilmente la sua porca figura. Poco o niente rimane di quell’umiltà , spazzata via da una sicurezza e da una neanche troppo vaga arroganza, probabilmente dovuta ai numerosi consensi all’ultimo “Celebration Rock”, che malgrado la professionalità e il trasporto del tutto non riescono a farmi godere a pieno dello show, tant’è che abbandono la sala prima del termine per qualche giro di perlustrazione all’esterno. La massa al pascolo negli spazi circostanti alla Grande Halle è delle più variegate; certo, gli indie-fighetti abbondano, come è logico che sia d’altronde, ma non sono i soli. Vago ancora un po’ e vado a mettermi in posizone per John Talabot in abbondante anticipo, snobbando Franà§ois & the Atlas Mountains, nome chiamato all’ultimo secondo a rimpiazzare i Chairlift. Sono parecchio infastidito all’idea di perdermi il duo synthpop americano, ma pare che l’uragano Sandy non la pensi come me, e quindi via di Talabot, che si esibisce in coppia con un collega anch’esso a percussioni, macchine e voce e presenta un set interamente live che, aiutato da luci di altissimo livello, risulterà tra i migliori momenti della serata. Perdo con un po’ di amarezza l’ultimo pezzo per andarmi a posizionare sotto il dio Tellier, per il quale nutro un’attesa spasmodica in seguito allo spettacolone al Meet In Town di quest’estate. Attesa ripagata, senza dubbio, ma non ai livelli dello show italiano. La presenza scenica di Tellier, già colossale di per sè, in Francia non fa che moltiplicarsi, e nonostante i tagli alla scaletta, l’assenza dei giochi coi laser e un vaghissimo sentore di fiacchezza rispetto allo show visto in precedenza non si riesce comunque a distogliere l’attenzione dalla genialità e dalla megalomania di quest’uomo, che accompagnato da due musicisti, uno a batteria e percussioni e l’altro ai synth, alterna brani degli ultimi due dischi a svarionamenti random col pubblico. Il successore in scaletta, ovvero James Blake, non può che sparire sotto la sua ombra, proponendo il medesimo set che mi capitò di vedere al Berlin Festival l’anno scorso (pure piacevole eh, per carità , però anche basta) senza grosse evoluzioni palpabili. Il termine della prima giornata si avvicina ed entrano in scena gli M83, e la maledizione dei Japandroids si ripete: grande tecnica, grandi brani, luci esagerate e inedito featuring con una piccola orchestra di una decina di elementi (che a conti fatti suona solo su 4-5 pezzi) ma un carisma eccessivo, che unito a dei nuovi arrangiamenti che uccidono alcuni brani (“We Own The Sky” semplicemente vergognosa) finiscono per farmi patire gran parte della durata del concerto, appesantito peraltro dall’eccessivo entusiasmo del pubblico, tra cori da stadio e pogo immotivato. E vabè.
Il secondo giorno me la prendo un po’ con comodo e perdo Outfit e Ranking. Poco male, arrivo giusto in tempo per guadagnare un ottimo posto per Jessie Ware. Nonostante non abbia apprezzato in maniera particolare il suo debutto, riconosco alla ragazza un oggettivo talento e un paio di brani parecchio meritevoli, che mi crescono ulteriormente alla prova live, dove la cantautrice britannica sfodera vocalizzi soul di alto livello. Jessie è un personaggio spontaneo, modesto, scambia spesso battute col pubblico e incita a ballare, l’impressione è quella di un artista che non è stato minimamente segnato dal successo ricevuto, tanto da essere uno dei pochissimi in lineup a concedere foto e autografi al termine delle esibizioni e a farsi vedere tra il pubblico durante i live (la avvisterò più avanti durante Robyn, a un paio di metri da me).
Wild Nothing e The Tallest Man On Earth non fanno per me. Vago un po’ per la Grande Halle e vado ad attendere i Chromatics, con un po’ di dispiacere nel perdermi i The Walkmen. Il gruppo di Johnny Jewel propone una selezione degli ultimi due dischi, in quello che risulterà uno tra i migliori live del festival: musicalmente ineccepibile, gli arrangiamenti risultano quasi sempre più spinti e danzerecci rispetto alle versioni in studio, così come la voce di Ruth Radelet meno monocorde e più slanciata. Al solito le luci, fenomenali, contribuiscono enormemente al risultato finale: grandi fasci di luci infrangono le atmosfere fumose della Grande Halle, sposandosi bene alle sonorità sintetiche del trio di casa Italians Do It Better. Si rimane quindi su sonorità elettroniche ma di ben altra pasta: Robyn accende le girandole che campeggiano sul suo palco e propone uno show travolgente. La svedese è un animale da palco, balla, ammicca, si dimena, alza i vestiti e mostra intimi improbabili, la band a supporto (due batterie e due ai synth) mixa sapientemente i brani in mashup trascinanti. Il pubblico è in visibilio e canta tutte le canzoni, cosa mai vista in due giorni di festival.
La grandezza di Robyn sta nel saper coniugare grande tecnica a uno spettacolo pop coi controfiocchi, e senza il bisogno di ettari di ledwall o di particolari trovate da popstar realizza un live con cui non reggerebbe il paragone neanche tutto l’armamentario di parrucche di Lady Gaga. Come al solito devo però perdermi l’ultimo pezzo per mettermi in postazione per un altro dei nomi più attesi, i Fuck Buttons. Neanche il tempo di spegnere il microfono alla popstar svedese che immediatamente si accendono le luci del nuovo palco, e un’enorme mirrorball posta dietro al banco dei due di Bristol irradia gli spettatori al suono dei primi droni impazziti. La risposta del pubblico è calda, caldissima, anche troppo: poghi selvaggi che manco ai Cannibal Corpse, per uno show che soffre enormemente l’incastro obbligatorio coi tempi del festival. In poco meno di un’ora ci si dovrà infatti accontentare di una manciata di brani, che non subiscono tagli a favore di una fedeltà assoluta anche a livello sonoro; uno spettacolo a frequenze altissime che malgrado i picchi raggiunti in brani come “Surf Solar” e la conclusiva “Flight Of The Feathered Serpent” non riesce tuttavia a frenare gran parte degli astanti dalla fuga a poco più di metà concerto, alla ricerca di un buon piazzamento per il nome più grosso della giornata.
Al termine dei Fuck Buttons recupero i rimasugli di padiglioni auricolari caduti a terra e mi dirigo anch’io in direzione Animal Collective, che nel frattempo hanno addobbato il palco con enormi giochi gonfiabili che riportano alla memoria la copertina dell’ultimo disco. Concerto tutto sommato prevedibile, che consta dell’esecuzione quasi totale di “Centipede Hz” e di un tre brani del precedente, senza riservare grosse sorprese ed esagerati stravolgimenti agli arrangiamenti in studio. Il pubblico sembra gradire e la band sarà l’unica di tutto il festival a potersi permettere un encore.
Il terzo giorno come ormai da tradizione mi perdo i primi due gruppi, Isaac Delusion e Cloud Nothing, ma ne guadagno in un ottimo posto per i Purity Ring, che attendevo alla prova live ormai da un po’. Il duo di casa 4AD sfodera un gran bell’allestimento, composto da un tamburo luminoso, grossi bozzoli lucenti che pendono dall’alto e un curioso marchingegno creato appositamente dal duo, una sorta di campionatore a intermittenza suonato con le bacchette. Un live che non stupisce poi troppo quello dei due canadesi, che non spostano nulla rispetto a quanto già fatto e rimangono fedeli alle sonorità di “Shrines”, con tanto di gaffe su mezza “Lofticries”, vittima di qualche irrisolvibile problema al microfono. Segue Twin Shadow.
Conciato come un Village People andato a male, George Lewis Jr, già autore di uno dei più grossi pacchi discografici dell’anno, propone il suo improbabile mix tra Jamie Stewart e George Michael in una ‘risparmiabilissima’ sequenza di brutti brani tratti dall’ultima pubblicazione e di storpiature di bei pezzi del disco di debutto, conditi da schitarrate random e altri inconcepibili orrori a casaccio. I pochi passaggi gradevoli sono appesantiti dall’inscindibile alone di fastidio che circonda il personaggio in questione. Capisco come tira il vento e all’insopportabile storpiamento della bella “Forget” vado a prendermi da bere. Torno invece per i Liars, elegantissimi in giacca e cravatta, che propongono un ottimo set composto da novità e vecchi brani, passando senza scomporsi minimamente tra ritmiche elettroniche e noise spinto, il tutto condito dai migliori visual visti nei tre giorni di festival: un infinito piano sequenza della band in una stanza, impreziosito da lunghissimi loop di oggetti in movimento. Alti livelli insomma, che devo tristemente abbandonare sul finale per il set dei Death Grips. Accuso parecchio il non aver ascoltato a dovere l’ultimo “NO LOVE DEEP WEB”, che andrà a comporre la stragrande maggioranza dei pezzi in scaletta, cosa che non mi permette tuttavia di godere di questo live, velocissimo ed essenziale (voce, basi registrate e batteria); Stefan Burnett catalizza tutta l’attenzione del pubblico su una voce roboante e movenze martellanti, le basi claustrofobiche o l’uso minimale di visual (supportati da un grosso tablet dietro al rapper) non sono che un apporto secondario al carisma del vocalist; il pubblico si carica, improvvisa vaghi poghi, accentuati all’esecuzione dei pochi brani tratti da “The Money Store”.
Dal numero delle persone che, come me, al termine dei Death Grips decidono di rimanere sul posto ad attendere i successivi Grizzly Bear si direbbe che nel frattempo i Breton stiano suonando per una dozzina di ascoltatori a dir tanto. Ciò che mi capita di sentire dal versante opposto della sala non mi sembra affatto un buon motivo per abbandonare una così buona postazione, tant’è che persino l’unico brano che avevo trovato interessante all’ascolto del loro debutto, “Jostle”, si risolve in fondo in fuffa pop-rock senza personalità . Poco male, il collettivo newyorkese sale sul palco e molto poco ci vorrà per capire che siamo davanti al momento più alto del Pitchfork. La formazione, accompagnata da un quinto uomo a piano, synth, tromba e via dicendo, esegue perfettamente il meglio di “Shields”, “Veckatimest”, insieme all’immancabile “Knife”, che infervora un pubblico galvanizzato. Sulla lunga coda di “Adelma”, secondo o terzo brano in scaletta, si alzano dal fondo del palco una serie di lanterne volanti illuminate a intermittenza che salendo, scendendo e incrociandosi tra loro creano giochi di luci a tempo coi brani proposti. Un live non fa che consolidare la sensazione di assoluta magnificenza che circonda la band ormai da anni.
In seguito ai Grizzly Bear si accende la serata danzante marchiata Pitchfork. Dei 5 atti a seguire ho modo di ascoltare solo parte dei Disclosure, house senza grosse pretese. Non mi dispiacerebbe sentir parte di Totally Enormous Extinct Dinosaurs, per cui viene montata un’imponente scenografia luminosa, ma considerati gli artisti a venire, per cui non nutro particolari entusiasmi, decido di evitarmi per una notte l’abominevole ritorno in noctilien (un’organizzazione di navette notturne almeno verso i grossi nodi di scambio di Parigi non avrebbe guastato, ecco), dirigendomi rapidamente verso la metro. Alle mie spalle continueranno a far festa fino alla mattina dopo, pare anche con grosse soddisfazioni.