D’istinto mi sarebbe difficile prendere seriamente un artista che nel nome d’arte sceglie di omaggiare una nota casa automobilistica, eppure il disco di Rover mi ha riportato sulla strada maestra del pop che in qualche modo avevo trascurato in favore di ascolti più trasversali. Lo ha fatto scegliendo un giro più largo, evitando di colpire al primo affondo in favore di una graduale conquista che si compie col procedere di ascolti sempre più attenti ai dettagli. Non che sia difficile approcciarlo, perchè il gusto per la melodia lo si avverte subito, ma la grazia di cui sono permeate le composizioni ha bisogno dei suoi tempi e di una certa cura nell’ascolto. Un dato curioso è che lui, all’anagrafe Timothèe Regnier, è di origini francesi, cosa che nella sua musica non si avverte nemmeno di striscio. Proprio nel paese dei “cugini” transalpini il disco è già disponibile da qualche mese e solo adesso ha visto la luce nel resto d’Europa.
Abbiamo rischiato di perderci qualcosa di importante, per come il nostro maneggia una materia pop che come nomi tutelari ha in David Bowie e Neil Hannon dei Divine Comedy i due maggiori esponenti. Al di là delle semplici influenze, siamo al cospetto di un’artista già compiuto, che non ha bisogno di copiare nulla da quelle che sono le proprie ispirazioni, che qui risultano più che altro un punto di partenza per una scrittura quanto mai solida e convincente. I grandi dischi pop hanno “semplicemente” bisogno di grandi canzoni e qui ce ne sono ben undici infilate in una scaletta ineccepibile. Rover sembra un dandy inglese dalle buone maniere, di quelli che vivono e compongono all’antica senza rinunciare ad essere contemporanei. E forse questo è il maggior pregio di un disco che non si perde nella classicità senza tempo, ma arricchisce il proprio ventaglio sonoro con parsimoniosi inserti sintetici ed architetture contemporanee. L’album che non ci saremmo aspettati e che rischiavamo seriamente di perdere nel marasma delle pubblicazioni di questi ultimi mesi. Da top 10 del 2012.