Il Covo è sempre stato un locale intimo dove la barriera artista/pubblico è totalmente annullata; non esiste backstage e chi suona deve sempre passare in mezzo alla massa che si accalca sotto al palco. Se a questo aggiungiamo che la sala era piena per poco più di metà , possiamo benissimo dire che Sabato 9 chi era al Covo è come se si fosse visto il concerto nel salotto di casa.

Anni fa, senza la rete e l’eccesso di informazione che abbiamo, poteva capitare di ascoltare dischi senza aver mai visto una sola fotografia della band. Se fosse capitato con i Dry the River, chiunque avrebbe pensato di aver sbagliato data o location. I cinque, che fino a poco tempo fa hanno vissuto insieme accampati in un appartamento di poco più che due stanze a Londra, sono totalmente sganciati dallo stereotipo delle band alle quali vengono associati: tatuaggi, capelli trasandati e canotte (addirittura dei Danzig per il batterista!)

L’apertura è affidata ai delicati arpeggi di “Shield Your Eye” ed alla voce sussurrata e quasi fragile di Peter Liddle. Sguardo spesso in basso, poche parole ed occhi più chiusi che aperti, Peter Liddle sembra rapito dalla sua stessa musica e quando i ritmi si alzano segue il flusso, così come il bassista Scott Miller, ritornando forse un po’ all’energia delle vecchie band post-harcore in cui tutti militavano, facendosi sfuggire anche qualche headbang.
Tutto il live è stato una successione di alti e bassi. I Dry the River hanno avvicinato, toccato ed accarezzato il pubblico con melodie marcatamente folk, morbide ed avvolgenti e poi hanno risucchiato tutti in una spirale a tratti post-rock, coinvolgente ed adrenalinica.
Si sono affievolite le atmosfere epiche del disco, forse anche a causa di un violino e dei cori non perfettamente amplificati, e si è fatto posto ad una vena più rock con qualche distorsione e riff in più, come nell’intro “M83” di oltre 2 minuti di “Bible Belt”.

Con “No Rest” però arrivano le bacchette da timpano e la batteria si ovatta, la voce si fa più profonda, il violino sembra riprendersi dal torpore ed il loop I loved you in the best, I loved you in the best way possibile fa sollevare il pubblico di qualche centimetro da terra per avvicinarsi al palco.
Lion’s Den chiude il breve set con il climax forse maggiore grazie alle chitarre ruggenti che fanno ricordare a chi li avvicina troppo a Mumford & Sons o Noah and the Whale ed affini, che si perde un pezzo importante della loro identità .

La serata si chiude con un’encore emozionante dove i 5 eseguono “Shaker Hymns” acustica in mezzo al pubblico, in un locale illuminato solo dalle luci degli onnipresenti smartphone.
Live vs studio, folk vs rock. Questi i dualismi dei Dry the River. Pare che a gennaio saranno nuovamente in studio: continuerà  il dualismo o un lato prevarrà  sull’altro?

Setlist
SHIELD YOUR EYES
NEW CEREMONY
HISTORY BOOK
DEMONS
WEIGHTS & MEASURES
NO REST
BIBLE BELT
LION’S DEN

– encore –

SHAKER HYMNS