Sono passati venticinque anni da “Made Me You Realise”. Era il millenovecentottantotto e sarebbero successe cose meravigliose. A quel tempo era lecito azzeccare una melodia pop e spingerla all’inferno. Camuffarla senza pedanteria oltre il muro di dissonanze e feedback. Non era da tutti, però. I meno audaci continuavano indefessi a cercarsi la coda con in testa alcuni punti di riferimento assoluti (dai Beatles agli Smiths), e atteggiarsi brit più di quanto fosse necessario. Nessuno di loro, però, se n’è mai fatta una colpa. Sulla sponda opposta tutto questo non era abbastanza, come nel sessantasette, a New York, non sarebbe stato abbastanza farsi fotografare insieme al più figo degli artisti pop. I fissascarpe giravano per i locali, con ancora poca fama underground addosso, lasciando tra i loro amplificatori e il pubblico una distanza implacata e meravigliosamente assordante.
Qualcuno bussa alla porta e ci ricorda che le cose belle, talvolta, durano poco. Nel millenovecentonovantuno la rivoluzione targata My Bloody Valentine subisce un arresto improvviso. In tempo, però, per lasciare esplodere definitivamente l’urgenza noise di Loveless. In tanti hanno cercato di spingersi fino in fondo alla ricerca dell’essenza di un album del genere. Un album che ancora oggi, negli scantinati dei negozi di vinili, gira da una mano all’altra con il fascino immortale della scoperta pronta a svelarsi.
E dunque, ventidue anni di silenzio. Poi la notizia improvvisa. Ed ecco “MBV”, omonimo fuori tempo massimo. Frutto dell’amore viscerale dei My Bloody Valentine per se stessi. Per il loro tempo. Per quelle foto sgranate di quando erano più giovani. Per quegli amplificatori frenetici e le splendide melodie sottomesse. “MBV” è come un film di Gus Van Sant sui My Bloody Valentine. Come un libro di Hubert Selby sull’armonia. è la storia che si ripete. Autoreferenziale, mai troppo, solo per ritrovare lo schema, il guizzo da cui tutto questo ha preso il via.
Spiegarsi “MBV” vuol dire entrare nel vortice e fare finta che non esista. Adattarsi alle regole. Scansare con un braccio la nebbia fitta di distorsioni martellanti e accontentarsi di una carezza, di tanto in tanto, purchè sincera. Tentare di dissezionare “MBV” è una colpa. Forse il più grande torto che si possa fare a Kevin Shields. “She found now” riaccende Loveless e ispessice l’aria attorno. Il risultato è un ostacolo conturbante, un meraviglioso universo di sovrapposizioni sonore (“Only tomorrow”, su tutte) da cui la melodia cerca di liberarsi. “MBV” sa addolcirsi (“If I am” e “New you”) e incazzarsi (“Nothing is”). Sa disorientare, senza tentennamenti. Affacciarsi su “MBV” significa tornare all’origine di tutto e cominciare da capo.
Ventidue anni sono tanti e possono essere nulla. Tra i tanti meriti di Kevin Shield, un giorno, ricorderemo anche quello di saper mantenere le promesse. Quello che conta, in definitiva, è che dei tanti gruppi che ci hanno provato, da allora, soltanto i My Bloody Valentine sanno essere i My Bloody Valentine.