Seguo Jamie Lidell da oramai un decennio, dall’uscita di quel “Multiply” che ne svelò il grande talento di soulman contemporaneo e visionario: ho approfondito la sua carriera (compresi i seminali, ma sottavalutatissimi Super_Collider), criticato le involuzioni e apprezzato tremendamente l’ultimo disco “Compass”, verissimo capolavoro di black musica totale e attualissima. Era dunque con qualche timore, ma anche con grande speranza, che attendevo il nuovo lavoro, anticipato dal singolone “What a Shame”.

L’album, il primo omonimo, conferma la passione elettronica che già  caratterizzava il suo predecessore, ma restringe il proprio range sonico, subendo l’ingombrante ombra di Prince che ammanta buona parte delle composizioni.
Infatti sin dall’iniziale e stratificata “I’m Selfish” il genietto di Minneapolis con il suo funk lascivo e scattante appare come principale punto di riferimento: è quindi inevitabile conseguenza di questa scelta che il nuovo “Jamie Lidell” mostri una spessa patina eighties, chiaramente palpabile in “Big Love” e nella più suadente e synthetica “Do Yourself a Faver”.
Tra soluzioni pop leggermente banali (“Blaming Something”) e incursioni cinematiche (“You Naked”), tra la consueta elettronica schizofrenica (“You Know My Name”, tra le vette del disco, anche grazie alla prestazioni più intensa di Jamie) e il sempre presente omaggio a Tom Waits (l’electro blues dell’onomatopeica “why_ya_why”) l’album scorre piacevolmente, senza però lasciarsi alle spalle quell’aura di grandezza e di urgenza che invece apparteneva ad almeno due suoi fratelli maggiori.

Sembra quasi che lo stesso Lidell abbia compreso appieno la propria statura di classico moderno e, nel volersi confermare, abbia sfornato un album piuttosto statico e convenzionale. Resta il fatto che anche un’opera convenzionale di Jamie Lidell rimane un gran bel divertimento. Per lui e per noi.