Avvertenza necessaria e propedeutica: questo è un report atipico, è un report scritto virtualmente su una pagina di diario, pertanto un po’ lungo. Lo so, lo so, neanche a me piacciono gli articoli eccessivamente prolissi, ma avendolo scritto col cuore ed essendo la band di cui si narra parte di uno spaccato di vita importante, questo report è prolisso. Grazie a quanti eventualmente arriveranno alla fine. Bene, dunque, a cuore aperto”…

A volte la vita ti dà  l’opportunità  di affrontare certe paure. Di affrontare certe malinconie. E le malinconie le si nutrono nei confronti di esperienze brutte, certo, ma anche di esperienze belle, bellissime, fantastiche. Magari esperienze condivise con persone con le quali non sei più in contatto e con le quali non c’è più alcun rapporto, o con cui hai un rapporto burrascoso. O ancora con persone con le quali hai condiviso parti fondamentali della tua vita, alle quali sei stato legato sentimentalmente e con le quali ora non hai alcun rapporto o un rapporto burrascoso o un bel rapporto. Insomma, ci siam capiti.
La prima volta che ho visto i Beach House dal vivo è stata a Manchester, in uno dei viaggi più esaltanti della mia pur giovane vita, con la mia ex ragazza. Mi piacevano anche prima, ma quel rapporto è stato sugellato da quel viaggio e da quel concerto. Un bel concerto: HMV Ritz di Manchester, un freddo che definire terribile è poco; noi imbacuccati e col rimpianto di non aver comprato mutande di lana per l’occasione, gli inglesi a mezze maniche una volta finito il concerto, pronti a far baldoria nella notte di Halloween.
Poi è finita.
Così, quando ho saputo che il duo di Baltimora avrebbe fatto tappa, per il Bloom Tour (o meglio, per essere precisi, per il Frightened Eyes Tour) a Milano, ho immediatamente scartato la possibilità  di andare a sentirli per la seconda volta. Malinconia canaglia. Paura di essere sopraffatto dai ricordi. Paura delle mie paure e delle mie architettoniche minchiate mentali. Paura che il ricordo di quei bei giorni mi avrebbero risucchiato nel nulla più cosmico.
Eppure qualche forza superiore ha fatto sì che decidessi di presenziare al live dell’altra sera ai Magazzini Generali.

Al banchetto del merchandising, tappa obbligatoria per il sottoscritto prima di qualunque concerto, c’è lo stesso tizio che vendeva i prodotti a Manchester, per di più nella stessa camicia variopinta.
A supporto dei Beach House, un ragazzotto di nome Marques Toliver, violino e voce, il quale lascia intravedere un futuro quantomeno interessante davanti a sè (il suo primo album uscirà  il prossimo 13 Maggio, ma su Spotify ci sono i suoi Ep ““ se ne consiglia l’ascolto). Marques in poco più di venti minuti di set riesce a farsi amare ed odiare senza mezze misure: forse troppo potente la sua voce (di certo una gran voce), ma col violino il ragazzo ci sa fare eccome.

Alle dieci in punto Alex Scally, Victoria Legrand e il batterista Daniel Franz vengono accolti dal boato della platea, numerosissima, che qualche ora prima aveva affollato quasi due isolati costringendomi ad una fila brobningnagiana e infrangendo i miei sogni di godermi la musica avviluppato alle transenne (questo si rivelerà  drammatico quando la coppia dinanzi a me intavolerà  una discussione circa i cazzi più disparati, che si protrarrà  per tutta la durata del live). L’inizio è affidato quasi interamente all’ultima fatica “Bloom”: “Wild”, “Troublemaker”, “Other People” e il singolo di lancio “Lazuli” (con in mezzo “Norway” da “Teen Dream”). Nessun saluto, nessuna pausa tra un pezzo e l’altro (a dir la verità  anche qualche abbassamento di voce da parte della Legrand), ma tutto ciò cementifica paradossalmente l’empatia con l’aldiquà  del palco, garantendo un’intensità  che sarà  il maggior punto di forza della performance.
La musica dei Beach House potrebbe essere riassunta negli istanti in cui parte il riff (o il motivo) di “The Hours”, che dal vivo risulta più potente rispetto alla versione su disco, con Victoria che si attorciglia sulla propria tastiera come se questa fosse una chitarra librando nell’aria la sua chioma. E’ un motivo circolare, sinuoso, malinconico e a suo modo potente, appunto, che ti sferza e ti culla, ti scuote e ti accarezza allo stesso tempo; qualcosa che ti pone davanti i tuoi fantasmi, le tue paure, che te li offre per affrontarli. Per lasciarti andare come fa Victoria intorno alla sua tastiera. Chi si aspettava un concerto soporifero, è stato brutalmente smentito senza possibilità  di replica nemmeno per un secondo: i BH fanno dream-pop, le loro melodie sono eteree e gentili (insomma, il rischio in un live c’è eccome, basta uno sfasamento di volumi e la frittata è fatta), ma l’intensità , come detto, si taglia a fette. Merito soprattutto della Legrand, la cui interpretazione, seppur in un corpo essenzialmente statico e in un volto che a malapena riesce a scorgersi dietro la frangia, diventa sempre più strepitosa man mano che la sua voce acquista sicurezza. Tanto da permettersi qualche (lieve) virtuosismo e qualche (lieve ma decisiva) mutazione rispetto alle linee registrate su disco. Ecco, magari da Alex ci si potrebbe aspettare qualcosa del genere: la sua chitarra è inappuntabile, ma suona esattamente come in sala studio, non una nota in più nè in meno.

Alle prime note di “Zebra” l’ennesimo boato, nonchè il secondo motivo di disappunto per il sottoscritto: braccia che scandiscono il ritmo come se fossimo ad un party hip-hop (mentre tranquilli, i due davanti continuano a sproloquiare del più e del meno, del tipo Ma hai visto che carina la maglietta di lei? Ne ho visto un modello simile da H&M! ““ true story). Il main set si chiude dopo un’oretta dall’inizio con “10 Mile Stereo”, prima del solito siparietto dell’arrivederci, dei fischi di richiamo e del ritorno sul palco.
Quindi “Turtle Island” dal secondo album “Devotion”, e il vero addio-arrivederci con la splendida “Irene” e il suo reiterato It’s a strange paradise sotto il quale finalmente anche Alex ci va giù pesante per una coda ai limiti dello shoegaze.

Con in braccio il vinile di “Devotion” rimetto il naso in strada, ripensando a tutti i dubbi e le paure che mi avevano fatto mettere in discussione la mia partecipazione a questa serata. E mi ritrovo a pensare che è vero quando ti dicono di prendere le cose di petto, di affrontarle per bene per dissolvere le paranoie. Quei giorni e in particolare quella serata a Manchester non li dimenticherò mai, l’amore è finito ma il bene e l’affetto son rimasti. I bei momenti non si cancellano andando a risentire la stessa band. Semmai riascoltare la stessa band può regalare ulteriori bei momenti. E questo un bel momento lo è: una specie di forte e necessaria catarsi accompagnata da dolci note. è davvero uno strano paradiso.

Setlist:
WILD
TROUBLEMAKER
NORWAY
OTHER PEOPLE
LAZULI
GILA
SILVER SOUL
THE HOURS
NEW YEAR
ZEBRA
WISHES
TAKE CARE
MYTH
10 MILE STEREO

— Encore —
TURTLE ISLAND
IRENE

Credit Foto: Oxfordwhites [CC BY-SA]