Harper è figlio di Paul. Simon, ovviamente, ed è al suo secondo album: davvero niente male era stato quell’album omonimo che tanto ci ha ricordato la nostra giovinezza, senza scadere in una facile imitazione di un padre per altro irraggiungibile. Il timbro vocale è rimasto (e ci mancherebbe anche che fosse il contrario) lo stesso, vellutato e poco incisivo in altri contesti che non siano il folk o il pop.
Ebbene, con Division Street, il nostro giovane Harper ha attraversato realmente una strada di divisione, messa a confine di due mondi: quello in cui noi credevamo in lui, e quello in cui lui crede in sè. Basterebbe “Veterans parade” per capire che il mondo della chitarra acustica è stato scalzato dal mondo dell’elettrica, e bisogna aspettare “Eternal questions” per rivedere quel luccichio cantautorale di qualche anno fa ed essere salvati dalla noia rock & roll della prima parte dell’album. Un arpeggio ci riporta nel mondo delle nostre aspettative: è quello di “Just like St.Teresa”, che ci concede insieme alle restanti tracks una lunga boccata d’aria lontana dal grigiore cittadino in cui Harper sembrava aver deciso di trasferirsi.
Non si notano sparse qua e la lungo il disco collaborazioni d’eccezione: il batterista Pete Thomas degli Elvis Costello’s Attractions, Nikolai Fraiture degli Strokes, Nate Walcott dei Bright Eyes e Mikael Jorgensen dei Wilco. Davvero non male, poi, se il produttore è Tom Rothrock, quello di Elliott Smith, per intenderci, il che fa capire molte cose sulle influenze.
L’album chiude in modo etereo e stanco con l’accoppiata “Breathe out love” e “Leaves of golden brown”. Paul Simon cantava “the leaves that are green turn to brown”: Harper le raccoglie e le colora d’oro.
Ma non è tutto oro quello che luccica.