L’avete vista Karen O al Coachella? A un certo punto, dopo essersi pulita per bene l’orecchio destro e aver sputato acqua in aria, si è infilata il microfono prima in bocca, e poi nei pantaloni. Nei pantaloni, davanti. Nel mondo delle emoticon, coloro che hanno assistito a questa scena sarebbero state due “o” maiuscole con l’underscore in mezzo. E qualcuno in rete aveva detto che si era rammollita e non provocava più come un tempo. Invece la creatura che riesce ad essere sensuale pur somigliando ad un ibrido tra Lady Gaga e Sbirulino ce l’ha fatta ancora, per di più in un vestito ““ anzi direi un costume di scena sinceramente improponibile.
In mezzo a tutta la pletora di band sorte all’inizio dello scorso decennio sotto l’insegna del cosiddetto New York rock revival (Strokes, Interpol, Bloc Party) gli Yeah Yeah Yeahs hanno tenuto botta al passare degli anni (i Tv On The Radio si son mantenuti a livelli alti per tutta la loro carriera finora). Lo hanno fatto, si potrebbe dire, semplicemente stando al gioco di si ma ora cosa fa figo? (e di “figo” da qualche anno a questa parte c’è il synth, c’è l’elettronica ““ synth is the new guitar). Ecco appunto, strada già tentata da Casablancas e compagnia, con risultati non esattamente entusiasmanti, diciamo così. Gli Interpol poi sembrano aver esaurito il carburante e dei Bloc Party magari è meglio non parlare. E poi ci sono loro, gli Yeahs, che già in “It’s A Blitz” avevano mostrato una marcata attitudine maggiormente sintetica ed electro rispetto al garage e al pop-punk dell’esordio. Ora la faccenda si fa più chiara: non si rinuncia alle chitarre, ma le primordiali escrudescenze vengono plasmate, rimodellate sotto l’egida di un certosino lavoro di post-produzione, di maggiori studio e ponderazione.
All’immagine di Karen descritta in apertura fa da contralto quella di Karen alle prese con “A Warrior”, pezzo contenuto nell’ultimo Swans: una sorta di rilettura del Vangelo di Giovanni sulla Seconda Venuta di Gesù sopra una nuvola con la voce della Nostra malinconica, pacata, a tratti dolce e commossa. Perchè Karen sa giocarsela alla pari con gli avvinazzati di professione nella gara di rutti alla sagra delle orecchiette di Cerignola così come la dolce dama che balla con te un lento in abito da sera, la lolita che ti lancia occhiate assassine in discoteca così come la premurosa mogliettina che ti fa trovare lo strudel alle pere quando torni a casa o che la domenica ti sveglia mettendo su “Sunday Morning” dei Velvet Underground. Dicotomia che trova in “Mosquito” un encomiabile equilibrio. Se è vero, infatti, che nella titletrack la vocalist va a briglia sciolta con i vari Suck your blood! e l’imitazione del ronzio degli stessi insetti e in “Buried Alive” si mostra in tutta la sua sensualità , “Subway” è di una intensità tenera e spiazzante, oserei dire mistica: una nenia spettrale ed evanescente che non decolla mai (ci può stare il paragone con “Staring At The Sun” dei TVOTR, non a caso in cabina di produzione c’è pure Dave Sitek ““ ma non dimentichiamoci del membro factotum Nick Zinner). In “Sacrilege” (senza dubbio uno dei singoli dell’anno finora) c’è la Karen sommessa che canta Fallen for a guy fell dawn from the sky e quella quasi isterica che sale di pitch per precisare che vi è un halo round his head, e finanche la chicca del Broadway Inspirational Voices Gospel Choir.
Dicotomia che si ripresenta anche a livello strumentale. Se è vero che, come detto prima, le chitarre non siano state accantonate (“Area 52” è una tipica canzone Yeahs “vecchia maniera”), è l’approfondimento elettronico del discorso intrapreso nell’ ormai penultima fatica ad essere interessante. E i tre dimostrano di saper destreggiarsi con soddisfacenti risultati all’interno di micro-aree diverse seppur riconducibili alla radice elettronica, dal dub di “Under The Earth” al club di “These Paths” passando per il synth-dream-pop pur screziato di ruggine Jesus and Mary Chain di “Always”. Altrove le due anime, elettrica e sintetica, convivono. “Slave” e “Buried Alive” sono due poderosi electro-dance-rock, e in quest’ultima trovi anche il featuring-supercazzola del rapper Mr. Oktagon (e non chiedetemi perchè, ma a mio modesto avviso funziona). “Wedding Song” poi è proprio pop bello e buono, la rievocazione della succitata collaborazione con Gira, la pacificata chiusura dopo tanti schiamazzi: In flames I sleep soundly with angels around me / Some kind of violent bliss led me to love like this (non dimentichiamo che da poco KO ha devvero preso marito).
“Mosquito”, nonostante la sua varietà sonica e sonora, risulta ben omogeneo e si lascia ascoltare volentieri fino a ritagliarsi una sorta di angoletto d’ascolto ogni giorno ““ gli inglesi direbbero It’s a grower, ossia un album che cresce con gli ascolti. Gli Yeahs del 2013 sono aggressivi, tenui, grezzamente (nel senso che non hanno perso quel fuoco rude che li rende così incendiari dal vivo) rifiniti, sempre esaltanti e molto, molto orecchiabili, quasi facili. Va là , in brevi frangenti sembra addirittura puttan-pop (dov’è Lana Del Rey ora?) Ma avercene, avercene e avercene.
[Postilla: l’edizione deluxe dell’album contiene versioni live, acustiche e demo di alcuni pezzi, anche queste con il loro perchè.]