Al secondo disco “Calendar Days”, i Dick Diver di Melbourne, se non fosse per l’incredibile oscillazione pop che si infatua con cromosomi indie dentro la circonferenza del loro essere, rischierebbero di passare sottotraccia come una buona e giovane band tra tante, che si prodiga a suonare e sbavare un metro quadro di notorietà ovunque si presenti l’occasione, invece sono dolci di loro, tormentano con la modestia e la semplicità che gli compete ogni padiglione auricolare nei dintorni.
Un disco che scruta il cielo senza paura, lasciandosi scorrere addosso ansie, trasfigurazioni e frette consumistiche, plana come un bel sogno generazionale che sommessamente poi scompare per far posto alla musica, e che musica; undici tracce che possono essere immagini come torpori di un risveglio, minuti mai risaputi e i Go-Between in ogni angolo a carezzare l’ascolto con fare poppyes che più poppyes non si può. Rupert Edwards e sodali, hanno il passo felpato dei gattoni insaziabili, smuovono timbri e suoni in un saliscendi “componibile”, coniugando illusioni e poesia urbana in una special edition piacevolissima; dappertutto l’eco surf dell’Australia estiva e bighellona, poi un Lou Reed che gironzola circospetto “Blue & That” e che apre la tracklist che in un pugno di minuti da l’accesso ad un mondo, un piccolo mondo dai toni smussati e color carta zucchero.
Con il rispetto all’unica traccia che respira la poeticità tossica di una New York seventies “Languages of love”, il rimanente ““ tra Paisley e ragioni splendide ““ risponde alla tripletta delle ballad beatnik “Alice”, “Water Damage”, “Lime green shirt”, un leggerissimo prurito garage-punk “Bondi 98” fintanto che quel Lou Reed di prima ripassa indifferente fino a sparire dietro a qualche amore indomabile “Amber”. Hanno un sound ben definito, una sana voglia di farcela e si dedicano a qualcosa di sonante dove noi possiamo perderci a piacimento. Dateci dentro!