Un consiglio se doveste decidere di vedere un concerto al Barbican, a Londra, e su tutti i siti di biglietti fossero rimasti soltanto posti in seconda e terza balconata: fate un giro di persona alla biglietteria il giorno prima, potrebbe capitarvi di scoprire che per 2 sterline in più sono avanzati dei posti in prima fila che non era possibile comprare online.
Un consiglio se vi capitaste di incrociare il nome di John Smith, cantautore britannico poco noto ma con quattro album all’attivo: non fatevelo sfuggire. Con la sua chitarra acustica e l’accompagnamento di solo un contrabbasso, un violino e un violoncello cattura la sala per mezz’ora abbondante con un folk ben scritto e dall’esecuzione impeccabile quanto il suo gilet grigio.
E poi arriva Sam Beam, completo largo e un po’ stropicciato, camicia bianca sbottonata, la sua consueta foltissima barba e i capelli all’indietro che non nascondono la stempiatura. Attorno a lui ben 12 musicisti, tre archi, tre coriste, tre fiati, pianoforte & tastiere, batteria, basso. Nel contesto della sala da teatro del Barbican, costruita negli anni 80 per una capienza di un migliaio di posti a sedere inclusi due livelli di balconate, la band è talmente ordinata e ben disposta sul palco da sembrare una versione apocrifa dell’Ultima Cena. Al centro Sam è certo il Cristo più affabile che si possa immaginare, ringrazia subito più volte il pubblico scherzando su quanto sia educato e su quanto lui sia contento di essere tornato a Londra (“Did you miss me?”)
Proprio come in un quadro di Leonardo l’eleganza e la perfezione formale non offuscano ma esaltano i colori, in questo caso quelli musicali. I pezzi dell’ultimo disco (non a mio giudizio il migliore di Iron & Wine) risplendono in arrangiamenti brillanti, una sezione ritmica meravigliosa e inserti di fiati da standing ovation. L’acustica perfetta della Barbican Hall fa risaltare ogni corda della chitarra di Sam Beam, ogni pizzicato degli archi. Lui lì al centro sembra in pace con se stesso, perfettamente a suo agio, a cantare d’amore e di vita con serenità che non sembra mai distanza, non sembra mai superficialità .
Il sound sconfina spesso nel blues, quasi in area Ben Harper, ma ecco che metà band lascia il palco e rimangono solo gli archi: la cover di “Such Great Heights” dei Postal Service è da brividi, per nulla fedele all’originale eppure capace di farne vibrare le corde più romantiche in misura specularmente opposta all’esecuzione degli stessi Postal Service solo una settimana fa a Brixton. Poi escono anche gli archi (“Finalmente soli”, scherza Sam) e inizia la parte da lui stessa definita “Iron & Wine buffet”: è possibile chiedere a una sala piena quali pezzi ognuno vuole sentire? La risposta è sì e la distanza tra artista e pubblico è definitivamente annullata. Oltre alle richieste inizia uno scambio di battute su quanto è bella la sala, I saw Ryan Adams here urla uno tra il pubblico per non è chiaro quale motivo e Sam lo elegge a leit motiv dei pezzi successivi: “Ryan wouldn’t forget the words”, quando si incespica nell’inizio di un pezzo. Fino a far concludere allo spettatore di prima You’re better than Ryan Adams – Thank you. I’ll tell him that you said that.
Le versioni chitarra e voce di “Resurrection Fern” e “Boy with a Coin” sono da pelle d’oca, entrambe da quel “The Sheperd’s Dog” che rimane ancora forse la summa migliore della musica di Iron & Wine. Poi ritorna la band ma l’atmosfera è ormai definitivamente familiare: Sam prima chiede scusa all’orchestra dicendo che vuole fare ancora un pezzo da solo ma potete restare a sentire, poi intravede una faccia conosciuta nel pubblico: I saw you at the restaurant before! – I was shy! giunge la risposta imbarazzata dalla platea – Next time come and say hi! chiosa il nostro prima di ripartire con la band per uno degli ultimi pezzi.
Esco con negli occhi la foto dei 13 musicisti sulla scena. Fantastico di file di turisti tra qualche secolo a studiarla come un dipinto di Leonardo da Vinci. Non ha senso certo, ma come rappresentanti del nostro tempo non avremmo certo scelto male.
Photo Credit: Andy Witchger, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons