Ridondanza e sovrapposizione additiva sono gli elementi portanti che caratterizzano la musica elettronica contemporanea ma c’è chi come il produttore canadese Devon Welsh, leader e fondatore con l’amico polistrumentista Matthew Otto dei Majical Cloudz, sceglie la sottrazione come cifra stilistica. Suoni essenziali, scarni quasi elementari sui quali costruire partiture vocali accompagnate da testi profondi e scuri che riflettono su temi esistenziali quali la famiglia, gli amici, la morte e l’amore nelle sue sfaccettature più complesse.
Preso a prestito il proprio nome da una novella di Arthur C Clarke, i Majical Cloudz si inseriscono nella scena elettro-glitch-pop canadese (Doldrums, Blue Hawaii, Grimes) con una personalissima visione musicale. E’ cosi che le atmosfere cinematiche fatte di eterei synth, ridondanti drum machine e organi notturni si fondono con la voce calda e profonda di Welsh mix perfetto tra la drammaticicità di Elliot Smith e i toni graffianti e ruvidi di Nick Cave ma anche l’intensità di Brendan Perry (Dead Can Dance), il soul dark di Ian McCulloch (Echo & The Bunnymen) e l’elegia darkstep di James Blake.
Dopo l’incisione del primo lavoro solista II del 2011, pubblicato su Arbutus Records , una raccolta di registrazioni lo-fi casalinghe tra synth pop e sperimentazioni dance nel quale collabora anche Clare Boucher (Grimes), Welsh coinvolge l’amico Otto nel progetto Majical Cloudz. Il primo prodotto del nuovo duo è l’ep “Turns Turns Turns” (licenziato sempre su Arbutus Records alla fine del 2011) dove sono già presenti tutti gli stilemi del loro personalissimo sound approfonditi poi in Impersonator (Matador 2013) il disco sicuramente più minimale e introspettivo della loro produzione. “Childhood’s End”, il primo singolo estratto, riassume egregiamente la tendenza stilistica dei Majical Cloudz : battiti cadenzati seducono e accompagnano la voce di Welsh in una sorta di nenia notturna che parla di solitudine e del tempo che passa, di sentimenti mai sopiti e di speranza di riscatto. Accompagnato dal bianco e nero ruvido e suadente al tempo stesso del video di Emily Kai Bock, “Childhood’s End” ci trasporta in una realtà parallela fatta di semplici e umane sensazioni del vivere, gesti quotidiani, misticità diffusa, ricerca della propria essenza in un percorso personale di riflessione e di abbandono in un rimando continuo con la caducità della nostra esistenza. Dieci tracce per quasi 37 minuti di musica scorrono veloci accompagnandoci in un l’ascolto sospeso tra tensione emotiva e groove dark come in un non-tempo nel quale è possibile riempire lo spazio vuoto con il proprio vissuto. E’ cosi che in brani come “This Is Magic”, “I Do Sing for You” e “Mister” il beat di fondo accompagna l’ascolto senza esplodere ma rimanendo in sospensione fondendosi con la melanconica drammaticità dei testi di Welsh.
“Impersonator” è un piccolo lavoro minimal, scarno ed essenziale che dimostra in maniera inequivocabile come l’abbondanza di rimandi, di suoni e di gesti creativi non siano sempre sinonimo di empatia e di come è possibile costruire un piccolo affresco sonoro postmoderno con pochi ma efficaci accenni.