Attingere dal passato per progredire. Questo che è stato il trend caratteristico dell’ ultima decade, anche in questi scorci del nuovo decennio sembra non aver alcuna intenzione di abbandonarci. E la band londinese di cui ci accingiamo a parlare ne è la prova.
Gli Arcane Roots di “Blood & Chemistry” suonano come suonerebbero i Mars Volta se decidessero di fare un disco di cover dei Tool con qualche accenno qua e la di August Burns Red e Slipknot.
Durante l’ascolto, come suggerisce la descrizione di cui sopra, l’ orecchio viene travolto da un’ ondata di citazioni spunti e idee che trascinano l’ ascoltatore su e giu per gli ultimi 20 anni della scena Alternative, lasciando libero sfogo ad atmosfere tetre a tratti opprimenti, esaltate dalla voce di Andrew Groves: alle volte mite capace di fondersi con rara maestria ai fraseggi di chitarra (vedi “Held Like Kites”), altre volte invece brutale (vedi “Tryptich”).
Il sound a dispetto dei due soli album è molto ben collaudato e preclude ogni soluzione narcisista, al contrario infatti sono la compattezza del suono e l’ essenzialità a farla da padroni per l’intera durata del disco. Altra nota ricorrente sono gli audaci cambi di tensione durante i singoli brani (vedi “Sacred Shapes” e “Slow”) che ricordano molto i piano-forte della celebre suite “2112”, dei Rush.
Ma “Blood & Chemistry” ha anche degli aspetti che non convincono in pieno, uno su tutti, la dichiarata inferiorità della parte finale dell’ album che risulta trascinarsi a forza verso un minutaggio per il quale non sembra esser stato concepito.
Tirando le somme gli Arcane Roots, seppur con alti e bassi, dimostrano di essere un gruppo dal futuro luminoso che non ha ancora espresso in pieno tutto il proprio potenziale, al quale questo album, ha l’ unica pecca di rendere solo in parte giustizia. Bravi.