Capita, nell’anno di grazia 2013, che si riuniscano anche i Black Sabbath. Formazione quasi originale: Ozzy Osbourne, Tony Iommi, Geezer Butler e (in sostituzione di un Bill Ward precocemente defilatosi) Brad Wilk, già batterista di Rage Against The Machine e Audioslave. “13” è il primo disco che vede “The Ozzman” al timone dal deludente “Never Say Die!” del 1978, e fin da subito più che un album è stato un percorso a ostacoli. La salute ballerina di Tony prima, un “Ozz” che per l’occasione ha rinverdito vecchie, tossiche abitudini poi, una tracklist rimaneggiata dalle tredici canzoni originarie alle attuali undici (di cui tre contenute nella deluxe edition) e già questo potrebbe bastare.
“13” è stato descritto da Mr. Osbourne come un disco di “satanic blues” ma la definizione più azzeccata è quella data dal vulcanico produttore Rick Rubin: “When You Sing Up To Their Riffs It’s Black Sabbath”. “The Dark Lord Of Metal” a.k.a Tony Iommi effettivamente sembra in forma da battaglia e Geezer Butler non è da meno, armato fino ai denti di linee di basso cupe e maestose. I pezzi sono lunghe cavalcate dai quattro agli otto minuti, suonate con competenza e gran mestiere. Il primo singolo “God Is Dead?”, coi suoi toni cupi tra giorno del giudizio e post ““ Armageddon, non aveva entusiasmato mentre migliore è stata l’accoglienza per “End Of The Beginning”, che ha fatto bella mostra di sè nell’ultima puntata della tredicesima stagione di “CSI”. La mano di Rick Rubin si nota soprattutto nella produzione heavy e il più possibile aderente al suono live (nessun trucchetto da studio a quanto sembra, neanche per “pompare” la voce di Osbourne, ma sarà vero?) di “Loner”, con tanto di riff che praticamente è una versione riveduta e ripulita di quello di “N.I.B”, “Age Of Reason” e “Live Forever”; mentre quando il ritmo si abbassa escono fuori canzoni che ricordano l’Ozzy solista (“Dear Father”, “Damaged Soul”). Un Principe delle Tenebre che se la ride mefistofelico circondato dalle chitarre acustiche e dai bonghi di “Zeitgeist”, vera e unica novità del disco, manco fosse Belzebù in febbrile attesa di rinverdire l’antico patto con Robert Johnson. Brad Wilk fa la sua parte, anche se l’assenza di Bill Ward si sente ed è inutile negarlo: la sezione ritmica formata da lui e Butler (che si conoscevano talmente bene da poter suonare bendati e coi tappi per le orecchie) era un’altra cosa. Quel mordente manca e molto, ma alla fine si tira un sospiro di sollievo perchè poteva essere molto peggio.
Sabbath Is Back, non sono più quelli di una volta e forse sarebbe assurdo pretendere il contrario. Si salvano grazie all’esperienza accumulata negli anni e, come ribadito in precedenza, a un gran mestiere. Rifanno se stessi cercando di non imitarsi troppo e la robusta produzione da disco metal moderno di Rubin (che raggiunge il culmine nelle tre bonus track “Methademic”, “Peace Of Mind” e “Pariah”) gli dà una bella mano. Svolgono i compiti con diligenza, confezionando un album che ha il pregio di cancellare dai ricordi la scialba esperienza di “Reunion” e i tentativi non riusciti di registrare nuovo materiale all’inizio del millennio. I fan, sentitamente, ringraziano.
Credit Foto: Shane Hirschman [CC BY]