Andrew Hung e Benjamin Power hanno dichiarato che un ruolo fondamentale nella costruzione dei loro pezzi lo gioca l’immaginario cinematografico. Qualcuno, su Youtube, ha tentato la prova del nove e s’è preso la briga di montare “Stalker” alle immagini dell’omonimo film di Tarkovskij: il risultato non poteva che essere eccellente. Magari un giorno gli toccherà prestarsi al cinema per davvero, intanto sul curriculum possono vantare di aver vomitato la ferocia di “Olympians” davanti la regina d’Inghilterra all’apertura degli scorsi giochi olimpici di Londra. Mica poco.
Dopo quattro anni di silenzio discografico i Fuck Buttons tornano e ribadiscono il concetto: il rumore è sexy. E ‘sta volta senza giri di parole, il messaggio è schietto, decriptato. Si parte dalle dinamiche in crescendo del post-rock à -la Mogwai, e su quelle Hung e Power imbastiscono droni spietati e giocano per sovrapposizione. In testa, le visioni cosmiche di certo kraut (l’arpeggiare à -la Tangerine Dream della bellissima “Year of the Dog”, per esempio) e dei Pan Sonic, il fascino per la ripetizione dei Neu!. La cura maniacale per i beat, emblematica nel rullante chiuso di “Stalker” o nelle ritmiche hip-hop di “Hidden Xs” e ancora nella martellante e industrial “Brainfreeze”, è forse il punto di forza e la marcia in più di “Slow Focus” rispetto al pur bellissimo “Tarot Sport”, del 2009.
Le idee di sempre, dei Fuck Buttons, qui sono puntellate e lasciate esplodere a misura con un linguaggio mai così pop. Cavalcate cosmiche cupe e cariche di tensione degne delle migliori allucinazioni cyberpunk di Philip Dick. “Slow Focus” si gioca il podio di disco dell’anno e questa non è una sorpresa, ma la migliore conferma possibile del talento di Andrew Hung e Benjamin Power, passati dall’essere gioiosi smanettatori di synth a maturi professionisti del suono. Del rumore.
Foto Credit: Simon Fernandez [CC BY 2.0], via Wikimedia Commons