Le aspettative sul terzo album degli MGMT erano molto alte; sia da parte della critica, curiosa di sapere cosa si sarebbe inventato il duo dopo la virata progressive pop di “Congratulations”; sia da parte del pubblico, il quale ha letteralmente consumato “Your Life is a Lie”, facendo registrare su Youtube oltre un milione di visualizzazioni nella prima settimana d’uscita.

Terzo disco nell’arco di 5 anni, la discografia degli MGMT ora è delineata a sufficienza per poter buttare giù qualche considerazione aggiuntiva. Partiti nel 2008 in pompa magna con “Oracular Spectacular”, una favolosa collezione di pezzi pop tipicamente anni ’60 e ’70 storicizzata sul canone degli Animal Collective e del loro “Merriweather Post Pavilion”, nel 2011 escono con “Congratulations”, album che segna una prima cesura col proprio passato. In “Congratulations” il duo rinuncia parzialmente alla propria vena pop, agli hook disinibiti e al ritornello tormentone, per imbarcarsi in un acerbo progressive pop mitigato dalle influenze glam tipicamente bowiane che ancora adesso si trascinano dietro.

Il terzo album cristallizza tale cambiamento in un dato: gli MGMT di “Oracular Spectacular” non esistono più, il duo che si presenta nell’autunno del 2013 con l’album omonimo è un progetto completamente diverso. Qualche eco è rimasta solo nella opening track “Alien Days” che ripropone il feticcio Bowie e la posa da weird low-fi, tipico della provincia campagnola americana che ha in Beck l’archetipo più a portata di mano.
“MGMT” è un album costruito sulle dilatazioni e progressioni, pensato per un ascolto senza interruzioni dove le tracce sono divise sia per una questione puramente convenzionale, sia perchè il duo non rinnega del tutto il proprio passato: “Your Life is a Lie” è di per sè un brano geniale, è pop in barretta energetica: ritmo ossessivo ed assillante per la sua ripetitività  (proprio come certi tormentoni estivi) che sorregge una lyrics che non ha ritornello”…anzi dove ogni verso è un ritornello a sè e dove il testo è una parafrasi di “Once in a Lifetime” dei Talking Heads. Gli MGMT hanno momentaneamente messo tra parentesi la loro vena pop, la quale qui come in “Congratulations” è solo domata ed inibita ma non di certo superata, anzi appena può spunta fuori dal nulla, quasi a voler testimoniare la sua latente presenza (l’improvvisa “Plenty of Girls in the Sea”).

Ai primi ascolti “MGMT” può apparire un album confusionario e disorientante, dove a regnare sono dei suoni che si percepiscono slegati gli uni dagli altri, come osservare un’immagine ambigua che l’occhio non riesce a mettere bene a fuoco. Proseguendo con gli ascolti lentamente tutto comincia ad avere senso, seppur immersi nella nebbia sonora, qualcosa viene a comporsi. “MGMT” sorprende per la sua unità  e coerenza, per la costanza che ha avuto la band di sostenere, ma anche solo pensare, un lungo trip psichedelico di 44 minuti dove non è possibile aggrapparsi ad alcunchè, nonostante l’orecchio cerchi invano qualcosa che suoni familiare: una melodia da mandare a memoria, un ritmo inconfondibile, il ritornello di “Kids”. Niente di tutto ciò. Gli MGMT si creano appositamente un ostacolo, sebbene in grado di costruire orecchiabili pezzi pop accessibili a chiunque, bramano un tipo di ascoltatore esclusivo, che non consumi la musica come un sandwich preconfezionato ma che la viva come un fatto culturale fine a sè stesso. Hanno in mente un ascoltatore riflessivo e solitario, più vicino al profilo di un cinefilo che non a quello di un hipster.

L’unica cosa che mi sento di rimproverare a Benjamin ed Andrew è l’impazienza nel voler bruciare le tappe, nel forzare una maturità  artistica che può giungere solo in modo spontaneo. Vogliono fare una musica introspettiva e profonda ma non si danno il tempo di interiorizzare e crescere realmente, per cui anche se ben congeniato, “MGMT” ha un suono impersonale, guarda con insistenza ad “A Saucerful of Secrets” dei Pink Floyd senza sedurre allo stesso modo, nè tantomeno restituisce la spontaneità  di “Oracular Spectacular”.

Nonostante i difetti “MGMT” è l’ottimo album di una delle poche band immune alla sindrome di Peter Pan e già  questo è un motivo sufficiente per farci un pensiero.