Ci sono momenti nella vita che difficilmente possono essere dimenticati. L’anno 1988 è per me uno di quelli caratterizzato dal raggiungimento della maggiore età e dalla prima grande prova dell’età adulta: l’esame di maturità . Molte sono le emozioni che restano vive nella mia memoria così come le colonne sonore che mi hanno accompagnato in quell’anno, su tutti “Strangeways, Here We Come” degli Smiths e “Mainstream” dei Lloyd Cole & The Commotion. Testamenti musicali di due gruppi, arrivati al capolinea artistico, che in quell’anno hanno suonato e risuonato incessantemente nelle mie orecchie e che più di altri hanno segnato il percorso evolutivo sia del mio gusto che della mia ricerca musicale. Se per Morrissey (singer degli Smiths) mi era già capitato in più di una occasione l’esperienza del live, per Lloyd Cole non avevo ancora avuto la possibilità di farlo e riuscire a vedere dal vivo uno degli idoli della propria adolescenza è sempre un’emozione unica carica di aspettative.
Arrivo al circolo con leggero anticipo, c’è un’aria tranquilla, serena e dimessa, poche persone sedute in giardino attendono l’inizio del concerto e, come mi aspettavo, hanno un’età media di quarant’anni. Ascolto il mormorio di fondo e mi accorgo che alcuni sono veri seguaci di Lloyd Cole e lo seguono da tempo nelle sue esibizioni in giro per il mondo, altri invece hanno fatto chilometri pur di assistere a questo live.
Alle ventidue in punto inizia l’esibizione. Un palco scarno, essenziale, composto da due chitarre ed un leggio, illuminato da una luce spot bianca, accolgono l’artista che, con aria rilassata, fa il suo ingresso. Un look casual e semplice total grey. Capelli, ormai imbiancati dal tempo ma con un taglio ancora anni ottanta, incorniciano due occhi di ghiaccio ed una espressione gentile di chi è stato più volte on stage e sa donarsi al pubblico senza esitazioni.
La serata inizia e il concerto prende il via con “Past Imperfect” da “The Negatives” del 2000, prosegue con “To The Church” dal primo disco solista omonimo “Lloyd Cole” del 1990 e con “Rattlesnakes”, pezzo estratto dell’omonimo primo grande successo dei Lloyd Cole & The Commotion del 1984.
A questo punto le mie sensazioni di assistere ad un live totalmente unplugged sono confermate. In realtà l’evoluzione musicale degli ultimi anni di Lloyd Cole lasciavano presagire una esibizione acustica lontana dalla new wave anni ottanta e di sicuro più vicina al cantautorato di matrice americana più che inglese. Da tempo ormai Lloyd ha lasciato il vecchio continente per trasferirsi a Easthampton nel Massachusetts con tutta l’allegra famiglia, luogo che ha influenzato non poco le produzioni degli ultimi periodi.
Intanto il concerto continua ed il pubblico comincia a partecipare in maniera attiva allo spettacolo interagendo con l’artista che dal palco mostra tutta la sua disponibilità al dialogo e la sua profonda simpatia e ironia. Racconta del suo rapporto con le nuove realtà dei social, di quanti lo seguano su facebook, del poll che ha organizzato tra i fans per scegliere, tra i suoi successi, le canzoni da proporre live e di come il suo pubblico abbia scelto una serie di pezzi strani, rari fatti di vecchie b-side che lui stesso aveva quasi dimenticato e che paradossalmente aveva comunque deciso di non proporre dal vivo. Intanto in prima fila c’è chi chiede a gran voce Jennifer she said un pezzo che Cole non suona più facilmente dal vivo e che non fa parte della sua scaletta da molto tempo ormai, Lloyd a questo punto si ferma e con aria sorniona risponde…”I’m bad I’ll never play that song” (non suonerò di certo quella canzone) ma dopo pochi secondi intona il pezzo che più di tutti hanno rappresentato in Italia il successo di Mainstream in una nuova chiave acustica. La platea a questo punto si infiamma e tutti cominciano a cantare intonando la canzone e ritornando, quasi per incanto, in un istante a 25 anni prima sentendosi giovani per un secondo e probabilmente ricordando momenti e situazioni ormai lontane.
Lo spettacolo continua con una serie di canzoni tratte dall’ultimo lavoro di Lloyd Cole, “Standards” del 2013, un disco fatto di ballate alt-folk dagli arrangiamenti curati e dalle melodie raffinate e, anche in questo caso Cole coglie l’occasione, spiazzando tutti con la sua ironia sottile, invitando noi spettatori a comprare il cd al banchetto allestito vicino al palco affermando che ha famiglia e due figli e deve pure far mangiare la prole.
Dopo circa cinquanta minuti la prima parte del concerto termina e l’artista congeda tutti invitando a consumare un drink dando appuntamento dopo venti minuti per la seconda parte.
Come un orologio svizzero il concerto riprende e ad aprire la seconda parte ci pensa “Are You Ready To Be Heartbroken?” tratto da “Rattlesnakes”, anche questo vestito con un nuovo arrangiamento molto intimo ma che conserva tutta la verve del pezzo originale. Si continua poi con Music in a Foreign Language tratto dall’omonimo disco del 2003, sesto lavoro solista di Lloyd Cole, per poi passare ad altri grandi successi del periodo Commotions come “Hey Rusty” da “Mainstream” del 1987 e “Perfect Skin” sempre da “Rattlesnakes”. E’ la volta poi di “Pay for It” tratto da “Don’t Get Weird” on “Me Babe” del 1991 e di una serie di pezzi più marcatamente folk tratti da dischi contemporanei di matrice più americana realizzati da Cole negli ultimi tre, quattro anni.
In definitiva il concerto, formato da due set con annesso encore, ha tenuto tutti i presenti coinvolti e ammaliati in una leggera e conturbante atmosfera fatta di cantautorato folk americano ma anche di alt-folk; quasi due ore di musica che certo sarebbe stato meglio assistere comodamente seduti, ma che comunque ha regalato a tutti uno spettacolo unico con un artista ironico e disponibile come non mai. Lontano ormai dalla new wave degli esordi Cole è oggi più un folksinger che una popstar ma resta sempre e comunque un compositore di alta qualità tecnica, dotato di grande preparazione musicale e di una sensibilità unica nella scrittura dei testi. Il Lloyd Cole 2.0 è ancora un vero artista.
Credit Foto: Michiel1972, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons