Quando sono uscite le foto della cartella stampa di “Dream River” tutti hanno pensato a quanto fosse incredibile e imprevisto (devo ancora trovare una recensione ““ inclusa questa ““ che non parta da qui per raccontare “Dream River”) che Bill Callahan vi apparisse sorridente; tutti hanno pensato a quanto fosse congruo e incongruo questo disco, che forse le guerre finiscono così, senza caduti, senza miracoli ““ che ci si arrende, sì, ma alla luminosità e al chiarore.
Da un luogo sconosciuto da qualche parte tra la veglia e il sogno, Bill Callahan si racconta come un viaggiatore senza tracce e dai bagagli leggeri. Ci racconta della hall di un hotel, di un uomo solo che chiede un’altra birra, che riesce a godersi la compagnia silenziosa di chi non sta viaggiando con lui, quasi non avesse bisogno di niente, quasi un’immagine da Leonard Cohen che, di quello che accadeva al Chelsea Hotel, don’t think about [it] that often. In “Javelin Unlanded” Callahan dice see as much as we can stand/ stand ‘til we stagger, laying all twisted together and exposed, like roots on a river bank: abbassare le armi significa anche solo sapere quanto si è in grado di sopportare prima di cadere; sapere che a un certo punto le cose smettono di colpirti, anche se sei esposto all’aria e agli avvenimenti. Puoi permetterti di sorridere nelle fotografie, perchè cos’altro deve accadere? Forse si dovrebbe parlare degli arrangiamenti, della ricchezza strumentale di un disco che non ha niente in eccesso eppure non è mai in tono minore, della sicurezza della voce di Callahan ““; o forse bisognerebbe parlare della bellezza di un disco che riesce esattamente come dovrebbe riuscire, che la bellezza della quiete non ha niente a che invidiare della bellezza delle rovine, delle guerre e che la bellezza della quiete, di una careless mind, non è mai una bellezza sciocca.
“Dream River” è un disco che non vorrei definire pieno di speranza, perchè non ha ingeuità , mai, è piuttosto il disco di chi oggi può permettersi di dire che ha paura che il tempo che rimane non sia abbastanza, che il viso di lei sia troppo pacificato perchè sia ancora viva, è il disco di chi spegne i sistemi di navigazione perchè sa esattamente dove sta andando e che se non lo sa, pazienza, non ci si perde più. è viaggiare sul sedile del passeggero, è lasciare che sia la strada a guidare. E l’album gode di un particolare stato di grazia: forse per la lunghezza ridotta, ha una coerenza ““ musicale, di immaginario, ispirazionale ““ che lo rende più simile a una testimonianza che a una nuova ricerca. Non è un viaggio sulle tracce di qualcosa, non è una ricerca di conforto: la natura, la primavera, le persone intorno a lui, sono indifferenti e nessuno presta attenzione, la terra può uscire dal suo asse, l’apocalisse può essere in arrivo. Ci troverà tutti pronti.
Mentre tutti parlavano del suo sorriso, a me, invece, continuava a tornare in mente il modo in cui si apre uno dei miei dischi preferiti di sempre, “I see a darkness” di Bonnie Prince Billy. La prima traccia del lavoro di Will Oldham è una pacificata “A minor place”, che ripensando al suono generale dell’album sembra quasi fuori posto, quasi una luce accecante in mezzo alla darkness più cupa. Lo scarto tra “Dream River” e tutto il resto della produzione di Callahan è forse minore della differenza di peso specifico tra “A minor place” e un’altra traccia qualsiasi e forse qua nessuno mi avrebbe fatto giurare, come la persona che mi ha fatto comprare Bonnie Prince Billy anni fa, che, non importa cosa, avrei evitato di ascoltarlo di notte (non so se lo sai, ma non ho mai mantenuto quella promessa e forse avrei dovuto); però non importa, perchè potrebbe essere Callahan a cantare che the scars of last year’s storm rest like maggots on my arm e a dirci if I am gone and with no trace, I will be in a minor place e noi tutti capiremmo meglio cosa sia il “Dream River”, dove andarlo a cercare.
Foto Credit: Oto Gillen