Katie e Allison Crutchfield sono due sorelle gemelle nate nel 1989 in Alabama. Stasera Allison suona con la sua band, Swearin’, in apertura al concerto londinese di Katie, meglio nota con il suo moniker Waxahatchee con il quale ha pubblicato a inizio 2013 “Cerulean Salt”, un racconto autobiografico fatto di chitarre elettriche grezze e immediatezza pop anni “’90 che ha giustamente richiamato paragoni con Elliot Smith e Cat Power. Un album che nessuno è riuscito a spostare dal podio dei miei personali dischi di quest’anno.
Il locale di stasera si chiama Scala ma non lasciatevi trarre in inganno, si tratta di un vecchio ex cinema nei pressi di King’s Cross che ospita spesso concerti dall’interesse inversamente proporzionale a quello che rivestirebbe il mix di pavimenti a mosaico e intonaco scrostato. Se non altro l’acustica è più che all’altezza ma quel che vedo della performance di Swearin’ non riesce a catturare la mia attenzione, lasciandomi la superficiale idea di una versione delle Breeders dai pezzi meno ispirati. Al confronto le tracce diffuse nel cambio palco mentre mi bevo una birra mi lasciano più soddisfatto e a un certo punto compare brevemente Katie che senza bisogno di delegare a nessuno l’incombenza fa una breve prova del microfono e dei monitor.
Tempo dieci minuti ed è di nuovo sul palco, ancora da sola ma accolta da un applauso ben maggiore che introduce i primi due pezzi eseguiti chitarra elettrica e voce, prima di chiamare quelli che lei chiama “i suoi amici”: niente più che un batterista e una bassista. Ma sbagliereste a pensare che tre musicisti (e anche lei soltanto in versione solista) non bastino a rendere nella maniera migliore quasi tutti i pezzi di “Cerulean Salt” e del precedente “American Weekend”. Non servono virtuosismi d’altra parte per il repertorio di Waxahatchee ma basta e avanza quella Fender Jazzmaster dal suono capace di riempire un’intera sala e di fornire il perfetto contrappunto alla voce esile e cristallina di Katie, negli accordi fermati dal palmo della mano di “Blue Pt. II” e in quelli distorti a sovrastare di prepotenza tutto il resto in “Misery Over Dispute”. La strofa di “Brother Bryan” è perfetta con solo quel basso dalle corde tirate fino a farle stonare e la voce scandita e intonatissima. In “American Weekend” nel giro di una stessa canzone c’è spazio per ricordare la potenza melodica dei Neutral Milk Hotel e le progressioni armoniche dei Nirvana.
L’altra chiave di volta per un concerto che se non si fosse capito finisce dritto nei migliori visti negli ultimi mesi, è l’atteggiamento punk nel migliore senso del termine, la mancanza di ogni posa e di ogni difesa, la dedizione alle proprie canzoni ben prima che al pubblico. Se cercassi una dimostrazione di quanto provocatoriamente affermato da Will Sheff degli Okkervil River solo pochi giorni fa (‘Indie music is the court music of the ruling classes’) non avrei che da guardarmi attorno: tra il pubblico composto e ben vestito tutti probabilmente ce la passiamo meglio dei tre sul palco e di sicuro conduciamo vite meno avventurose: al contrario di loro non abbiamo traccia di tatuaggi, di braccia robuste, di acconciature scomposte come quella che ho sempre visto in testa a Katie Crutchfield. Eppure c’è qualcosa che risuona nella sala e in ogni caso la più felice è proprio lei, Katie, che finito il set torna sul palco senza farsi aspettare per due ultimi pezzi da sola e non si può dubitare della sua sincerità quando esplode in quel suo incredibile sorriso e ci dice “grazie per essere venuti questa sera e significa tantissimo per noi e mi sembra sia il mio compleanno”. La chiusura è affidata prima a “Dixie Cups and Jars” e infine ad “I Think I Love You”, “una canzone triste” la presenta lei e la canta come quasi tutte ad occhi chiusi trasportandoci un’ultima volta nel suo mondo: I think I love you / But you’ll never find out.
Finisce così, bruscamente, su un accordo sospeso, come quasi tutti i pezzi di Waxahatchee, come quando non c’è altro da aggiungere perchè si è detto tutto quello che c’era da dire e non serve a nulla tirarla in lungo. E’ stato facile anche sopportare l’infida lama di aria gelida sparata sulle nostre teste dall’impianto di condizionamento della sala. Fuori la più classica delle pioggerelle londinesi e un’aria più mite del solito per questo fine ottobre. Come ogni giorno della settimana lungo Pentonville Road scorrazzano ondate di ventenni provenienti dalle residenze universitarie e dagli ostelli della zona. Alle prese sicuramente con storie universali molto simili a quelle delle canzoni di Katie Crutchfield: amori e delusioni che sembrano infiniti, e ancora altri brindisi in altri bicchieri di carta. Chissa se qualcuno di loro avra la forza di raccontarle con la stessa onestà , con la stessa efficacia.