(Sapete tutti di James Murphy, di David Bowie, della marcia di avvicinamento alla release del disco, dei Reflektors, delle maschere, del fatto che Rolling Stone lo abbia paragonato a svolte epocali quali “Kid A” e “Achtung Baby”. Bene, passiamo oltre.)
La disillusione fa parte della vita, non ci sono cazzi. è una tappa inesorabile che segna il passaggio alla maturità . C’è chi la incontra da bambino nella figura del bullo della scuola; c’è chi la incontra più in là con gli anni davanti ad un giudice divorzista; c’è chi, come me, la incontra alle due del mattino in un college americano ad un oceano e mezza Europa di distanza da casa. Gli Arcade Fire con la disillusione ci fanno i conti dal 2004, da quel “Funeral” pieno zeppo di morte e vita, di tensione esasperata fra scoramento e speranza, fra voglia di morire e desiderio di andare avanti. “Neon Bible” e “The Suburbs” hanno proseguito il percorso, allargando gli orizzonti non solo a livello di tematiche ma di sonorità . Se la disillusione (narrata con slancio epico) ha sempre costituito una costante nella “poetica” del collettivo di Montreal, la banda capitanata dalla coppia Butler–Chassagne (ora anche padre e madre) ha sempre sfornato dischi uno diverso dall’altro senza perdere uno straccio di credibilità e qualità .
“Reflektor” non è da meno. La disillusione è sempre il centro, il fulcro dal quale sviluppare invettive, riflessioni, amare constatazioni su come troppo spesso la vita sia menzognera, beffarda, eppure degna di essere vissuta grazie a due o tre cosette quali la musica, l’amore (l’Amore, quello vero, quello per cui si è disposti metaforicamente a scendere nell’Ade) e magari pure la speranza di un mondo finalmente migliore dopo che ti hanno sepolto sotto un cipresso.
Perchè (fatemela dire sta cosa) al netto di tutte le affermazioni e le domande apparentemente sacrileghe del tipo If this is heaven, I don’t know what it’s for o but if there’s no music up in heaven then what’s it for?, Win Butler ha una fede davvero genuina. Ai miei occhi pare un novello Martin Lutero, uno che sbraita e combatte per andare al nocciolo della questione. Ecco perchè allora in “Here Comes The Night Time” si scaglia contro i missionari rei di aver accolto il disastro di qualche anno fa ad Haiti come un monito di Dio (sulla falsariga delle invettive già presenti in “Antichrist Television Blues”).
A dire la verità l’immaginario religioso è sempre stato il mezzo del quale Butler si è servito per raccontare la realtà , e anche in questo senso “Reflektor” è l’ennesima conferma.
Un disco di una complessità esasperata, non solo a livello sonoro (per cui si consiglia vivamente di ascoltarlo con un impianto adeguato), ma anche e soprattutto a livello lirico. Ai primi due o tre ascolti potranno rimanere impresse poche cose, e neanche tanto a fuoco: il già arcinoto singolo “Reflektor”; il boogie Stones di “Normal Person”; le strutture tanto “Funeral” attraverso cui “Here Comes The Night Time” si dipana (fra accelerazioni e rallentamenti in stile “Crown of Love” e “Wake Up”); la furia punk con cui si apre “Joan of Arc” (che poi lascia spazio ad un glam di marca T-Rex avvolto in un’atmosfera medievale); la tenue magnificenza di “Awful Sound (Oh Eurydice)”, con quel crescendo beatlesiano alla “Hey Jude”; la smaccatamente neworderiana “Afterlife”. Un disco dunque (come si può intuire dalla descrizione molto sommaria dei pezzi appena fornita) fortemente e spudoratamente citazionista nei suoni, eppure personale nella calligrafia tipicamente arcadefiriana (l’epica è sempre lì in agguato, avviluppata attorno alla palla stroboscopica). Poi al terzo o quarto ascolto capisci quanto sia necessaria nell’universo una canzone sul vero amore come “Porno”; quanto “Supersymmetry”, pur sembrando una qualsiasi canzone degli Stars, chiuda perfettamente i 75 minuti (85 su cd – prima della title-track c’è una traccia fantasma di 11 minuti); quanto pur rendendo omaggio a “Billie Jean” “We Exist” asfalterebbe tranquillamente una qualsivoglia pista da ballo, quanto sapientemente costruita sia “It’s Never Over (Oh Orpheus)”; quanto l’apparente nonsense di “Flashbulb Eyes” a metà fra i Clash di “Sandinista” e i Peaking Lights sia in realtà tassello importante nell’economia generale del lavoro, quanto infine poco incida il kitsch inutilissimo del campionamento della voce di Jonathan Ross ad incorniciare “You Already Know”.
Tuttavia il salto di qualità , “Reflektor”, lo compie nel momento in cui lo si ascolta facendo caso ai testi. Anche qui, inizialmente, potrà sembrare tutto un susseguirsi di slogan, invettive, ritornelli catchy (siamo distanti insomma dalle poesie di “Funeral”, dalle storie di “Neon Bible” e dai racconti di “The Suburbs”) (In realtà qui in comune con “The Suburbs” c’è la ricorsività di alcuni versi).
Ma si possono rintracciare diversi concept tutti aggrovigliati l’uno all’altro: oltre ovviamente alla storia d’amore tra Orfeo ed Euridice, le riflessioni su quanto quest’epoca così attenta e così schiava della pubblicità , dell’immagine, dell’affermazione di se ad ogni costo sia stata già descritta qualche tempo fa da Kierkegaard con le parole “reflective age”; e ancora l’ipertecnologizzazione odierna (tema in qualche modo già affrontato in “Deep Blue” e “We Used To Wait”) che talvolta, più che cementare, ammazza i rapporti umani (We’re so connected, but are we even friends?).
“Reflektor” è l’ennesimo poderoso, magniloquente più che mai, album degli Arcade Fire. Un’opera che sotto la coltre danzereccia e carnevalesca (in questo riprende le atmosfere drammaticamente festose di “Funeral”) custodisce l’ennesimo bagaglio emozionale di disillusione (in questo è forse più vicino a “Neon Bible” e “The Suburbs”), ma che proprio per mezzo di quella coltre cerca di esorcizzarlo e proiettarsi verso l’Infinito. ‘Chè la nottata deve passare, e trascorrerla mascherati sul carro degli Arcade Fire, in questo momento, è la più grande figata possibile.
Guy Aroch Photographer