Avete presente la serie tv Friends? Quando ho ascoltato Cate Le Bon la prima volta ho immediatamente visualizzato l’episodio in cui la fricchettona Phoebe canta Gatto rognoso nella solita caffetteria dove si ritrovano i protagonisti: una vera lagna. C’è da dire che quella prima volta accadeva in una serata a Milano in cui ero elettrizzata per ben altre cose, prima fra tutte il fatto che Cate stesse facendo da spalla a St. Vincent nel suo tour del 2011. Me la ricordo da sola con la sua chitarra, un grazioso spaventapasseri. Però era brava, questo si sentiva. E soprattutto, col senno di poi mi sorprende quanto quella visione fosse così rappresentativa del “tao” di questa ragazza venuta dal Galles, una intrigante combinazione di cupezza e ironia.
L’anno successivo, Cate ha pubblicato il suo secondo album “Cyrk”, un’avventura ben diversa rispetto alle ballate (in gallese) del suo esordio. Con questo disco ci ha accompagnati per prati attraverso suoni ipnotici in chiave diurna, strimpellando una specie di inno ai trip lucidi in cui era già contenuta tutta la psichedelia sana del suo stile.
Arrivata al terzo album, “Mug Museum”, fresco di uscita del 12 novembre, Cate conferma il suo talento. Ora mi sembra chiaro: più che un’artista, questa cantante è un’artigiana. Come ci suggeriscono il titolo dell’album e il video del singolo “Are you with me now”, in cui si mostra intenta a creare le tazze di terracotta che sono tra l’altro in vendita sul suo sito, Cate è dotata di una rassicurante manualità . Confeziona le cose che fa con dedizione e attenzione ai particolari.
Spesso paragonata a Nico, con la quale ha in comune il modo di cantare spettrale e austero – reso ancora più sinistro dal curioso accento gallese – non è un caso che tra i suoi riferimenti ci siano i Velvet Underground. “Mirror” ne è un esempio, personalizzato da un inizio alla St.Vincent ma una fine alla “Heroin”.
Non c’è dubbio che se dovessimo infilarla in un genere sarebbe quello della nuova psichedelia alla MGMT, Foxygen o Tame Impala. Ma a differenza di questi gruppi, la musica di Cate Le Bon è più discreta, giocata sulle mezze tinte più che sulle esplosioni caleidoscopiche, insomma meno fanfarona. Anche quando sgarra un po’, in pezzi come “Wild”, abbandonandosi a qualche incursione acida e distorta, lo fa sempre in maniera contenuta.
Questa sobrietà è uno scrigno prezioso: le canzoni di “Mug Museum” hanno sì una struttura semplice ma sono costellate di una miriade di variazioni sul tema che ci tengono incollati ad ascoltarle, seguendole come in gita in un labirinto. Non sai mai cosa ti aspetta dietro l’angolo. L’abilità di Cate credo stia proprio nel bel lavoro di arrangiamenti che ci sorprende proprio nel momento in cui eravamo a tanto così dall’annoiarci. Trovo molto buffo il modo in cui alleggerisce l’atmosfera di “Sisters” o “Duke” guaendo tra organetti e chitarrine con un aplomb da cagnolina blasonata.
Non mancano neanche momenti di dolcezza come in “I wish I knew”, grazie anche alla presenza di Mike Hadreas, aka Perfume Genius.