Stasera ho fatto la pace coi National. Non gli avevo ancora perdonato il live di Milano nel 2010, in cui li ricordo snaturare freddi e distanti anche i loro pezzi migliori, e soprattutto non gli avevo perdonato il disco allora appena uscito, “High Violet”, ben al di sotto dei loro standard e del precedente “Boxer”. Ma sono passati altri tre anni e il nuovo “Trouble Will Find Me” mi è quasi piaciuto. Talmente tanto per intenderci che dopo averlo ascoltato lo scorso maggio, mi ero dimenticato anche della sua esistenza.
Ma fare finta che dei National non me ne fregasse più nulla è più facile a dirsi che a farsi e non deve essere un problema soltanto mio: stasera l’atrio dell’Alexandra Palace è pieno di gente che mi sembra stranamente simile a me. Non noto tracce di fan esaltati (forse saranno già a tenere stretto il posto in prima fila) ma ovunque mi giro vedo facce familiari, quasi un prototipo del fan di rock alternativo che rifugge gli eccessi, dove gli hipster sono pressochè assenti e l’età media è un po’ più alta del solito. Tutta gente che se dovesse compilare un profilo per la rubrica Soulmates del Guardian potrebbe infilarci tranquillamente loves listening to The National e trovarlo un espediente migliore di molti altri per descrivere la propria personalità .
Il locale a sua volta è molto particolare, immaginate una stazione ferroviaria di quelle enormi con le arcate di mattoni e il soffitto altissimo, ma senza i binari e al loro posto migliaia di persone. Ai lati ci sono vari bar e un posto che vende hamburger, ma con carne certificata di una fattoria dell’Essex e ovviamente ci casco subito e ne compro uno (neanche male). Tutto ciò è solo la prima sala e non ancora quella dove si svolge il concerto a cui si accede tramite una seconda serie di porte ed è altrettanto o forse ancora lievemente più grande. Sembra di essere a un festival.
La band sale sul palco preceduta da un video che li riprende in diretta mentre attraversano i camerini e Matt Berninger per prima cosa si avvicina al microfono per dire How are you doing? Thank you! e per i suoi standard mi sembra un inizio di ottimo auspicio. Dall’ultima volta che l’ho visto si è trasformato in una specie di barbuto, saggio padre di famiglia, occhiali con montatura trasparente, completo scuro elegantissimo con tanto di gilet. Al confronto i fratelli Dessner al suo fianco in giacca, tshirt e la loro perenne aria da ragazzi potrebbero quasi essere suoi figli. Sembrano aver trovato un equilibrio migliore sul palco e hanno facce distese, è un piacere guardarli sui maxischermi che si soffermano quasi sempre su degli stretti primi piani.
Musicalmente l’inizio non è male, ma le sfumature che li hanno sempre caratterizzati su disco fanno fatica a distinguersi. L’acustica non è perfetta e i più penalizzati sono il batterista e soprattutto la voce di Berninger, che immagino debba essere un vero incubo per qualunque fonico: nei volumi necessari per una sala di questo tipo le armoniche di ogni nota vengono per forza di cose sacrificate, le code troncate sotto la soglia del compressore, riescono a uscire spesso solo gli attacchi, sassi lanciati nell’acqua senza formare cerchi.
Sull’esecuzione acustica di “Slipped” le cose vanno meglio, l’equilibrio tra i suoni è migliore e la voce baritonale ha spazio per risuonare. Rispetto a quando lo ricordo lanciarsi occhi spiritati sulla folla a un ATP festival nel lontano 2008, Berninger sembra davvero un’altra persona. Anche quando su “Squalor Victoria” si lascia trasportare in un passato più viscerale, impiega un secondo a ricomporsi e con un filo di imbarazzo ci informa che oggi è il compleanno di sua moglie, che è da qualche parte in America e gli dedica il pezzo successivo, la struggente ballata “I Need My Girl”. Sarà uno dei migliori tra i pezzi dell’ultimo album suonati stasera, ma è impossibile non notare la differenza di intensità quando sfoderano i grossi calibri del passato: “Abel”, “Slow Show”, fino a “Fake Empire” e al suo ultimo assolo di trombone, mentre i visuals proiettano immagini a bassa definizione di una città spettrale.
Proprio quando cominciavo a pensare che la potessero avere archiviata in soffitta, arriva puntuale nei bis anche “Mr. November” con il rituale di Matt Berninger che scende dal palco fino a scomparire inghiottito dalle prime file di fan, i tecnici che affannosamente cercano di sgrovigliare il cavo del suo microfono, le telecamere che lo perdono totalmente e ripiegano sull’inquadrare gli altri membri della band, mentre la sua voce urla forse per la duecentesima volta I won’t fuck us over, I’m Mr November. Il loro pezzo più politico, e l’unico in cui Berninger riesce a rifugiarsi in qualcosa che mi immagino più simile ai primi concerti della band, a un contatto nuovamente fisico ma forse meno stritolante dello sguardo di migliaia di persone concentrate su di lui per il resto della serata. Dopo un secondo giro tra il pubblico sulle note di “Terrible Love” e dopo aver ringraziato gli addetti alla sicurezza che hanno protetto i miei testicoli negli ultimi 15 minuti, much appreciated arriviamo vicini alle 2 ore di musica e c’è ancora tempo per una chiusura acustica e con il pubblico a cantare in coro “Vanderlyle Crybaby Geeks”. Quella di stasera è una band che ha ancora voglia di stare sul palco e se è oggettivamente molto diversa da quella vista per la prima volta nel 2007 pare aver trovato un nuovo equilibrio interno e con il suo pubblico. Anche con il sottoscritto.