But I know that to possess her
Is therefore not to desire her.
Il buon zio Nick Cave l’ha sempre saputa lunga. Sebbene questi versi trattino di una donna, ascoltando certi dischi mi viene facile associarli alla musica. Può farlo chiunque, invero, chi in un modo considera quest’ultima come una donna, come la “sua” donna. Al pari dell’attesa leopardiana per la domenica, spesso la vertigine del desiderio supera di gran lunga le suole stabili del possesso.
Son finiti gli anni in cui si dedicavano giorni, settimane e mesi al culto di un solo album, o di un solo artista o di una sola band. è la solita (eppur vera) storia: la quantità insensata delle uscite propinateci con veemente e spietata abbondanza grazie alla rete rende sempre più difficile riservare del tempo ad un solo disco, approfondirlo, viverlo. Però.
Però esistono dischi fatti apposta per sgusciare da questo circolo impazzito. “Virgins”, nuovo album del canadese (Dio li benedica tutti, TUTTI) Tim Hecker gira da qualche settimana nel mio fido account Spotify e da qualche giorno finalmente anche sul mio affidabile giradischi portatile. E lo fa ripetutamente, sfuggendo sempre e comunque al possesso, alla piena comprensione. Quella del musicista (meglio: artigiano del suono) di Vancouver è musica inafferrabile, che si fa materia per un istante per poi disgregarsi e riempire la stanza come le particelle nebulizzate di Oust. Un po’ come “Loveless”, la sinestesia è in agguato, il suono quasi lo vedi e lo tocchi, ma non puoi afferrarlo del tutto, qualcosa ti sfugge sempre.
A differenza dell’ultimo “Ravedeath, 1972”, in “Virgins” i proverbiali droni heckeriani fanno parzialmente spazio ad una dose più cospicua di cembali e pianoforti. Come giustamente sottolineato da Pitchfork, a questo giro Tim si concentra più sulla performance che sulla manipolazione in studio. Ovviamente rimane sempre un mago nel dosare in modo sgangherato e disturbante e conciliante allo stesso tempo supercazzole noise, staffilate glitch, acquazzoni sonici e muri sonori che insomma ciao. The Quietus invece ha genialmente osservato che Hecker non ipnotizza i suoi ascoltatori, ma dipinge paesaggi per loro (per noi). O meglio, direi io, ci ipnotizza, ma non è un’ipnosi vacua, catatonica. Piuttosto, ci pone sul serio davanti bozzetti da mirare e rimirare e di cui pian piano far parte.
Io dico che c’è bisogno di musica impossibile da possedere, da ca(r)pire come quella di Tim Hecker. Qualcosa che ti incolli lì nell’impresa titanica e dunque senza speranza di acchiapparne chiaramente l’insieme una volta per tutte. Perdonate l’analogia melensa, ma è come conoscere la “propria” donna o il “proprio” uomo e innamorarsene ogni giorno per una ragione diversa e nuova.
“Virgins” è opera sensoriale a tutto tondo, è opera che stringe il cuore e stimola le sinapsi (toh, proprio come una relazione). è la colonna sonora di un viaggio verticale alla ricerca della Speranza e della Purezza, come il titolo stesso suggerisce, ma che non risparmia asperità , passaggi all’ombra, pieni e vuoti del tipo il cliente non è al momento raggiungibile.
è opera che la destinazione alla fine la raggiunge, donando una vista mozzafiato sul panorama sottostante, da un’altitudine di cui Tim Hecker ormai sembra essere il padrone incontrastato.
(Per quanto mi riguarda, disco dell’anno e quindi voto pieno.)