Dalla prima volta che ho sentito I Cani dal vivo sono passati due anni. Quella volta suonarono allo Spazio 211: palco più piccolo, capienza minore, un concerto in scala ridotta. Avevo ventidue anni e mi ero sentito irrimediabilmente vecchio in mezzo a dei ragazzini poganti che sembravano usciti da I pariolini di diciott’anni. Per tutta la durata del concerto, oltre a schivare adolescenti che puzzavano di adolescenza e birra, avevo fatto il filo a una ragazza di fianco a me, un gioco stupido di occhiate laterali e mezzi sorrisi tra una canzone e l’altra, con il risultato di un po’ di tabacco in più da fumare in attesa del bus notturno in via Cigna. Nel tempo che separa quella sera da giubbotto di pelle di ottobre del 2011 a questa notte parka e sciarpa di lana di fine novembre 2013, Niccolò Contessa ha suonato in giro Il sorprendente album d’esordio dei cani, ha perso qualche capello e ha registrato un nuovo album, “Glamour”. Io, nel frattempo, ho quasi finito la laurea magistrale, ho pubblicato due racconti, ho smesso di fumare, ho perso meno capelli di Niccolò e sto tentando di smettere di guardarmi in giro ai concerti per provarci con la malcapitata di turno. Sull’ultimo punto ci sto lavorando e sto facendo grandi passi avanti, almeno secondo il mio psicanalista.
Dentro l’Hiroshima Mon Amour i pariolini di diciott’anni con l’ormone in subbuglio di due anni fa si sono trasformati in hipster insicuri sotto le loro barbe e i loro maglioni brutti con le renne e i fiocchi di neve, quasi trentenni che ormai si sono rassegnati alla triste realtà che con le velleità non ci si vive e per mantenersi serve un lavoro vero, uno di quelli proprio senza glamour. Forse aiuteranno ancora a scopare, le velleità , ma non ne sono più così certo.
I Testaintasca, band romana della scuderia 42Records, apre il concerto. Sembrano il contraltare perfetto de I Cani: niente synth, solo chitarre sporche e una voce abrasiva. Dalle retrovie arriva un grido che reclama Niccolò Contessa. è una voce isolata, il resto del pubblico mostra rispetto verso i Testaintasca. E bisogna ammettere che il rispetto se lo sono proprio meritato.
I Cani sono sul palco, immersi nel buio che fa tanta paura a Niccolò. Sulla prima nota di Come Vera Nabokov una luce fucsia cola sul pubblico. Niente più sacchetti di carta in testa, Niccolò ha gettato la maschera. Le canzoni del nuovo disco rendono bene dal vivo, l’intesa con il resto della band è perfetta, nessuna sbavatura. L’inizio di “Corso Trieste” sembra “All my friends” di LCD Soundsystem, non so se è azzardato questo paragone o è solo frutto dell’entusiasmo. Il synth ipnotico scorre lungo tutta la canzone come il ricordo del malessere senza nome dei quindici anni e ci avvolge tutti, insieme al mantra “l’unica vera nostalgia che ho” ripetuto da Niccolò come se tentasse di afferrare di nuovo quel ragazzino che cammina lungo la strada stretto nel suo giubbotto, i passi insicuri e il groppo in gola per qualcosa che si dissolverà solo diventando grande, lasciando in bocca il retrogusto dolceamaro di uno sciroppo per la tosse. “Asperger” è frenetica, ruvida e tutta spigoli, con la batteria aggressiva a scandire le patologie dietro alle quali è facile nasconderci, fino al ritornello che sembra soltanto una pausa per prendere fiato prima di tornare a danzare come Ian Curtis fino a sentire i muscoli contrarsi dalla fatica. Non c’è niente di twee non delude le aspettative: dal vivo è tirata, cruda nel suo sguardo disilluso su una relazione amorosa, con quel ritornello che dovrebbe essere un memento anche e soprattutto per la coppia che c’è alla mia sinistra, lui le ha fatto conoscere il gruppo ed essendo più alto l’abbraccia da dietro, chissà se lei scherza sul fatto che in fondo il tipo che canta è piuttosto carino, ma mi sembra piuttosto impegnata a fare foto da postare su facebook, twitter, instagram. “Hipsteria” non ha perso la sua brillante ironia e il suo ritmo scanzonato, Caterina sarà qui tra la folla, malcelando i chili di troppo e la sua malinconia dentro leggings troppo stretti, non più fluorescenti. Con “Il pranzo di Santo Stefano” il ritmo rallenta e mi sembra una profezia di quello che succederà a molti di noi qui dentro tra qualche settimana. Un’altra variazione sul tema della disillusione riguardo alle relazioni, dopo Non c’è niente di twee e Le coppie. Amavo già la coda strumentale di “Post Punk”, l’ho isolata con Audacity e ho costretto anche mio fratello ad amarla, attraverso ascolti ossessivi. Niccolò mi regala un momento di puro godimento stirando quel minuto e mezzo di coda in un tripudio folle e granitico di synth e di batteria, La musica diventa un’onda che sbatte di qua e di là il pubblico.
Niccolò fa stage diving sull’ultima strofa dell’ultimo pezzo, “Lexotan”. è al centro di una pozza di luce gialla, sospeso sulle teste delle prime file. Ripenso alle parole delle sue canzoni, quelle parole che mi sento cucite addosso, che, non appena ascoltate, entrano di prepotenza nella mia vita. Ho paura di tutto, soprattutto de I Cani. Ho paura di Niccolò Contessa, della sua capacità di descrivere pezzi di vita che mi appartengono. Abbiamo le stesse paure, io e lui. Mentre mi metto in fila per ritirare il parka al guardaroba, le strofe di “Lexotan” mi rimbalzano in testa: cercherò di ricordare che nonostante tutto c’è la nostra stupida, improbabile felicità , la nostra niente affatto fotogenica felicità , sciocca, ridicola, patetica, mediocre, inadeguata felicità . Ecco, bisognerebbe parlarne con il mio psicanalista. Scrocco una sigaretta a un tizio con un berretto di lana beige brutto come solo certi capi trendy sanno essere. Dall’ultima volta hanno fatto dei gran progressi, I Cani, e li ho fatti anch’io. Sguardo fisso sul palco, con qualche concessione solo alla coppia alla mia sinistra. Ma resistere è un’impresa ardua. Aspiro la prima boccata. Il mio psicanalista capirà .