La seconda parte della classifica:
Se c’è un concerto a cui ho oggettivamente voglia di andare per farmi spaccare il naso e per dimenticare di essere una ragazza che quando pogava attirava solo sguardi di compassione, è un concerto degli Iceage. Abbandonato l’esoterismo continentale dell’esordio e precipitati in America checchè ne dicano loro (sollecitato sull’argomento, quella faina attenta e velenosa del cantante ha replicato «siamo europei, siamo molto più attenti al grigio.
L’hardcore americano è così ottuso e pretende di trasmetterti dei valori »), gli Iceage si rifanno vivi con un disco che scava nei temi a cui ci hanno abituato”“ cameratismo e nichilismo”“ ma con inedite aperture sentimentali. Perchè ci vuole una certa propensione per l’autodisprezzo, ma anche molta onestà , a confessare che non riesci a stabilire una relazione carnale con chi ti chiede intimità perchè hai dei blocchi nelle vene. Soprattutto se lo fai urlando. Più maturi paradossalmente proprio perchè più ingenui e meno attenti alla forma e alla coolness, gli Iceage pescano “L’ultima occasione” di Mina per scrivere un pezzo al piano (chi l’avrebbe mai detto) e condiscono il loro frainteso e vacuo “fascismo” con un po’ di altrettanto frainteso romanticismo.
(Claudia Durastanti)
Melodrammatico, epico, tragico, sinfonico. Nel 2013. Senza sembrare fuori tempo e fuori luogo, sempre elegante, le sneakers sotto il vestito elegante che battono il tempo in una sala concerti, mai kitsch, nonostante un cappellino non si abbini certo a uno Steinway.
Non è la gondola souvenir del viaggio a Venezia poggiata sul mobile in soggiorno, per intenderci. Woodkid è qualcosa di più, ha le linee pulite e precise di quel sasso nero raccolto l’estate scorsa in spiaggia, quando le vacanze volgevano al termine e la nostalgia iniziava a venire su come la marea, in modo lento ma costante, ogni sera, mentre il sapore annacquato dei cocktail vista mare prometteva un autunno non troppo amaro. E, come ogni promessa, non sarebbe stata mantenuta. Ma me ne sarei reso conto solo dopo, non so ancora se in tempo o troppo tardi.
(Sebastiano Iannizzotto)
Ho seguito le avventure del gruppo capitanato dall’eclettico Jamie Lee sin dai primi passi. L’attesa ad un certo punto si era fatta snervante. I Money avevano fatto sparire ogni loro traccia.
Avevano lasciato come unica testimonianza due o tre video che potevano far intendere che se fossero tornati, e per qualche motivo avessero dato alle stampe un album, beh, questo non sarebbe che potuto essere di ottima fattura. Ci ha quindi pensato la Bella Union a spronarli e farli mettere al lavoro. E ciò che ne è uscito è un fragile quanto avvolgente album, in cui riferimenti a letteratura e poesia ‘colta’ ne aumentano a dismisura il valore.
(Marco “Fratta” Frattaruolo)
Tim
Daniel Lopatin si allontana parzialmente dal filone ipnagogico (del quale era stato uno dei massimi se non il massimo esponente) per consegnarci un’opera schizofrenica per tempi schizofrenici.
Un’applicazione in musica del multitasking forsennato spesso e volentieri necessario per sopravvivere oggi (ascoltare “Americans” per farvisi un’idea). Nel mio personalissimo disco elettronico dell’anno, il produttore di Brooklyn giustappone organi a canne, synth d’annata, fiati (non si capisce bene se veri o elettronici anche loro), voci campionate (ascoltare “He She”), abbassando la durata media dei brani e confezionando un gioiellino che richiede solo qualche ascolto per farsi amare.
La qualita` migliore di Lopatin sta nello spingere al massimo la tensione per poi rilasciarla con trovate libidinose. Campione.
(Alessandro “Diciaddue” Schirano)
Dimostra ancora una volta di essere la cosa migliore uscita dalla scissione (momentanea o definitiva, chissà ) della ‘Gioventù Sonica’, Lee Ranaldo.
“Last Night On Earth” non ha l’immediatezza rock di “Between The Times And The Tides” ma di quel disco conserva la freschezza e il desiderio di sperimentare. Dark, musicalmente complesso, conferma l’estrema qualità musicale di questo guerriero noise che non finisce mai di stupire.
(Valentina Natale)
Appena a ridosso dell’inizio della stagione estiva ecco che fa la sua comparsa “Modern Vampires of the City”, terzo capitolo dei newyorkesi Vampire Weekend. Ti aspetti la colonna sonora dell’estate, ritmi frenetici e spruzzate di ‘tropicalismo’.
E invece ti ritrovi con in mano un disco multi season, multi strato, multi umore. Un disco che contiene in se una tavolozza illimitata di colori e che è in grado di variare al variare dell’umore. Un disco con un’anima, per intenderci.
(Marco “Fratta” Frattaruolo)
Un disco clamoroso questo “The Electric Lady”: come il suo predecessore è un concept a tema femminista e sci-fi (il secondo capitolo di un’ideale trilogia) e, ancor più del suo predecessore, è un verissimo caleidoscopio pop dalle tinte dannatamente black.
Di fronte alle tendenza, tanto in voga, della rilettura intellettuale, dell’interpretazione concettuale della black music, Janelle preferisce lo solidità di una scrittura memorabile, la grandeur di un gusto cinematografico e trasformista che ha il suo vertice in “Primetime” (con tanto di archi strappamutande, campionamento dei Pixies e assolo eighties cotonato).
(Nicolò “Ghemison” Arpinati)
Josh Homme e soci gettano la maschera, scavano nel repertorio e scelgono di realizzare un album capolavoro.
Una clamorosa e variegata opera che appare nel suo volto migliore.
Dieci brani ed un’anima lunatica, variegata, aspra, acida ed oscura tra toni antichi ed echi moderni.
Devastante.
(Matteo Giobbi)
Potrebbe valere quello che ho detto per “Vicious”, soltanto che in quel caso era declinato nel linguaggio del rock’n’roll, mentre nel caso di questo disco vale per il synth pop.
Ogni canzone lascia qualcosa sulla pelle, che sia gioia, nostalgia, rabbia, rimpianto, poco importa. Perchè è questo quello che si chiede a una canzone pop: farci sentire sulla pelle, d’istinto, tutte le sfumature dei sentimenti più elementari che un essere umano possa provare.
(Sebastiano Iannizzotto)
A mio avviso l’apice creativo del 2013, l’ultimo lavoro di Tim Hecker lo conferma artigiano e pittore del suono ancor prima che musicista.
Artista, ecco. Chiamatela astratta, chiamatela impressionista, quella di Tim Hecker è musica di cui i nostri costanti sguardi di appropriazione e brame di accumulo forse necessitano: inafferrabilità , incomprensibilità , e quindi meraviglia.
(Alessandro “Diciaddue” Schirano)
Per quanto ci raccontiate che i suoi live siano buttati lì e senza cuore (a me non è sembrato quando ho avuto l’onore, comunque…), il buon Kurt ci sorprende con un nuovo disco che sembra un flusso continuo di bellezza.
Grande.
(Emanuele “kingatnight” Chiti)
Il disco meno radicalmente grunge di Kurt Vile è anche uno dei suoi migliori. Durata maggiore dei pezzi, maggiore uso degli strumenti, un occhio ai suoni più rock ‘mainstream’ (ovviamente, tra mille e una virgoletta) oltre che a quelli tanto 90’s tanto amato. Certe volte basta poco per fare il salto di qualità definitivo, e sembra proprio che questa sia la volta buona per Kurt.
(Davide “Helmut” Campione)
“L’album della maturità “, si dice. Invece, qui, è semplicemente l’elettronica che si fa progressive. Magari peccando in vari punti, ma il risultato finale, nell’insieme, è da applausi.
(Alex Franquelli)
How can I live my life without comminting an act with a giant scissors? (Joyce Carol Oates)
(Sara Marzullo)
Questo di Bill Ryder Jones è un piccolo capolavoro di cantautorato.
Il chitarrista dei Coral ha confezionato una piccola gemma in bilico tra romanticismo e melanconismo. Come dicevo nella recensione da me curata “A Bad Winds Blows in My Heart” rappresenta ciò di cui avremmo più spesso bisogno. Un’isola che ci offre rifugio, da una dura quanto frenetica realtà , cullandoci sulle note di una musica meravigliosa.
A qualche mese di distanza non posso che non confermare quanto sostenuto in sede di recensione.
(Marco “Fratta” Frattaruolo)
Il coronamento di una carriera all’insegna del rock, la testimonianza di una vita all’insegna del folk.
Il terzo gradino del podio è occupato da un album puro, senza errori e che rimane nella memoria sin dal primo assaggio, non svanisce una volta ascoltato, sebbene il titolo dica il contrario.
(Tommaso “Pacha” Pavarini)
Jon Hopkins ha sfornata un mezzo capolavoro di musica elettronica, dove l’eclettismo non si fa maniera e lambisce lidi techno, glitch e ambient senza sbagliare un colpo.
E’ musica che scuote gli animi, che fa muovere il culo e allo stesso tempo rilassa e sa commuovere. Un viaggio esaustivo nell’arte di uno dei talenti più prodigiosi del panorama dell’elettronica contemporanea.
Deflagrante.
(Enrico Sachiel Amendola)
Katie Crutchfield (ex The Ackleys e P.S. Eliot) torna in pista nascondendosi dietro il moonicker Waxahatchee per pubblicare “Cerulean Salt”.
Un album che è un affare tra sorelle e futuri cognati, intimo e minimalista, dove bastano parole e respiri a illuminare la strada. E Katie dimostra di essere una cantautrice che non scorda le sue radici punk, una di quelle che suonano tristi come Torres ma anche incavolate, che confortano e fanno pensare.
(Valentina Natale)
Il tormento e l’estasi
L’avevamo previsto ed eccoci qui. La strega californiana è diventata una delle chanteuse più affascinanti e “consistenti” della sua generazione.
“Pain Is Beauty” è un vestito più elegante del solito sullo stesso emaciato, etereo corpo sonoro, squarciato da fitte di inquietudine e baciato da un commovente incanto.
(Luca “Dustman” Morello)
Il loro manifesto concludeva: “lo scopo delle canzoni delle Savages è ricordarci che gli esseri umani non si sono evoluti poi così tanto e che la musica può ancora andare dritta al punto, essere efficiente ed eccitante”.
E questo è quanto, a scapito dell’originalità di opinione. Il resto sono linee di basso che colpiscono all’altezza dello stomaco, una questione molto primordiale, poco verbale. P.S. Per chi crede che una band/artista femminile finisca sempre per parlare di amori felici/infelici: qui non ce n’è traccia. Tostissime, album rivelazione dell’anno.
(Serena Riformato)
Bill Callahan il superuomo, che vince la sua lotta contro il vortice, la solitudine (sono stato addestrato a trasformare la solitudine in pigrizia) e va al bar per pronunciare solo due parole: “birra” e “grazie”. Pur essendo un disco estremamente limpido nel suo essere destinato alla longevità , è difficile spiegare perchè “Dream River” abbia avuto tutto questo effetto su di me.
Forse perchè rispetto agli ultimi dischi è meno weirdo e molto più sexy e materico, forse perchè il cantautore è più indulgente con se stesso senza perdere un grammo di classe e dimostra che si può essere drammatici anche indossando i colori primari, forse perchè tutte le volte che in vita mia ho pensato al trinomio cantantutore+ sesso+ sciamano ho sempre pensato a James Douglas Morrison e, senza togliere nulla al Re Lucertola, era ora che qualcuno venisse a rimpiazzarlo. Che potesse essere triste e perverso quest’uomo lo sapevo, ma che potesse tirare fuori anche un Marvin Gaye State of Mind mi era oscuro. Direi che ci abbiamo guadagnato tutti, lui per primo.
(Claudia Durastanti)
Raramente un disco nella mia vita è stato capace di cambiare i miei umori e le mie giornate come è capitato con i Boards Of Canada quest’anno.
Eppure non è fatto di canzoni, non è fatto di voci, ma di un flusso di modulazioni ambient con variazioni graduali capaci di ferire. E’ l’angoscia dopo la tempesta, la desolazione dopo una deflagrazione atomica. E’ quello che viene dopo il dolore e non rassicura.
Un’angoscia indispensabile come le più cattive delle esperienze lisergiche. L’assenza che ti chiama a sè e tu non riesci a farne a meno.
(Enrico Sachiel Amendola)
La scomparsa del ritmo elimina il tempo cronologico. Un album dalle coordinate vaghe: dai Kraftwerk fino a Fennesz e poi di nuovo indietro. L’immagine più nitida nella loro discografia.
(Alex Franquelli)
Un’ode crepuscolare postmoderna colma di contrasti e chiaroscuri, in cui il calore del soul si fonde con l’algido minimalismo electro/dubstep.
Il suono del futuro che incontra il passato.
(Giuseppe “Mr Soft” Muci)
Tutto quello che mi aveva frenato all’esordio ora oggi viene spazzato da una vena soul che bagna la dubstep di James Blake come una pioggia rigenerante dopo la siccità .
Un disco elegante, caldo e allo stesso tempo distante. Una bolla tiepida come scudo dal mondo esterno. Soluzioni scarne ed essenziali intrecciano un tessuto emozionante e algido.
E poi, senza troppi giri di parole,”Retrograde” è uno dei più bei pezzi di questo 2013 che volge al termine.
(Enrico Sachiel Amendola)
Per il sottoscritto il 2013 ha avuto un unico grande, immenso, maestoso protagonista: David Bowie. Mentre molti lo davano artisticamente morto lui se ne stava in un qualche scantinato newyorkese a comporre questo suo ultimo gioiello, l’ormai noto “The Next Day”.
Dal nulla se n’è tornato con un album incredibile. “In The Next Day” di fatto c’è tutto quello che ti aspetti da una vecchia volpe come Bowie. Rock spigoloso, ballate malinconiche capaci di disegnare metropoli in bianco e nero e contaminazioni di stili e generi che riassumono la lunga carriera del Duca. Mi viene da prendere in prestito le parole proferite dal Gianburrasca d’Albione Noel Gallagher, secondo cui qualunque anno in cui esca un disco di David Bowie debba essere ricordato come un grande anno. E così sia.
(Marco “Fratta” Frattaruolo)
3. NICK CAVE AND THE BAD SEEDS
Push The Sky Away
[Nick Cave And The Bad Seeds ltd.]
Nick Cave è tornato, il disco è pressochè perfetto, niente compitini a casa, qua piuttosto la casa non esiste più, ci sono solo camere di hotel, città senza bambini, qui si cammina su “Jubilee Street”, qui si racconta di peccati, perdizioni, sirene e di tutto quello che, ancora una volta, per favore, voglio ascoltare.
Una di quelle cose che ogni volta che ascolti ti chiedi quanto sia bella.
(Sara Marzullo)
E poi quella voce. Personalmente mi sarebbe sufficiente anche solo quel “Ah” in mezzo a Some people say that it’s just rock and roll e but it gets you down to your soul nella titletrack per sciogliermi
(Alessandro “Diciaddue” Schirano)
Il ritorno di Nick Cave e dei suoi Bad Seeds è sontuoso, elegante e dotato di una sensualità rara.
Il disco perfetto per fare l’amore o per lasciarsi andare semplicemente con i pensieri. Un disco che brucia passione e incendia le notti.
(Enrico Sachiel Amendola)
Nella toccante “Jubilee Street” (video capolavoro), con quell’incedere sa un pò di Cowboy Junkies, Cave sembra voler chiudere un capitolo cupo dell’esistenza umana, decadente e lasciva.
(Bruno De Rivo)
Nick e le sue cattive semenze ci regalano un altro disco e potremmo tranquillamente finirla qui. Invece due parole su “Push The Sky Away” è il caso di dirle, perchè le merita. E’un album ispirato, in cui Mr. Cave riunisce le sue cento anime di scrittore, cantore e poeta narrando mille storie.
(Valentina Natale)
2. ARCADE FIRE
Reflektor
[Merge]
…gli Arcade Fire hanno scelto di spostare l’asticella più in alto, sfidando il pubblico con un album che esplora il lato dark del dancefloor e lo fa con stile. Coraggioso e riuscito.
(Valentina Natale)
Se ne è già parlato in lungo e in largo, ma questo è il disco che li proietta oltre le stelle. Il loro “Achtung Baby”: la lunghezza, forse eccessiva, non spaventa quando ci si perde dentro.
(Emanuele “kingatnight” Chiti)
…arrivano gli Arcade Fire e io cedo a tutto ““ o meglio, mi rendo solo conto che non ho fatto altro che aspettare che un disco così uscisse, che forse un disco così serviva proprio, una narrazione a lettere grandi, tutta l’epica che non solo ci meritiamo di avere, ma che è la migliore possibile.
(Sara Marzullo)
Ho riso molto guardando Win Butler truccato e vestito di tutto punto per il carnevale di Cento. Ho riso molto guardando Win Butler ballare impacciatissimo al Saturday Night Live, passandosi nervosamente e ripetutamente le mani nei capelli per riporli dietro le orecchie. Ma soprattutto, ho promosso Win Butler e la sua banderuola, ancora una volta, forse più di prima. “Reflektor” è quel momento in cui esci di casa per andare a ballare per la prima volta.
(Alessandro “Diciaddue” Schirano)
Cosa aggiungere sugli Arcade Fire che non sia già stato detto? Partoriscono un gargantuesco baraccone multimediale, un vero e proprio caleidoscopio emozionale che bagna nella disco e nella wave le disillusioni degli anni ’10.
(Giuseppe “Mr Soft” Muci)
…adesso c’è bisogno di esorcizzare quelle perdite, adesso c’è bisogno di danze disperate alla fine della notte per tenere a bada i demoni, tutti quanti, per riuscire a vivere accanto ai fantasmi. Ecco cos’è questo “Reflektor”. E questo mi basta.
(Sebastiano Iannizzotto)
Tra lunghe e oscure cavalcate disco e più rassicuranti momenti rock non distanti dai fasti del passato, Butler e compagni si confermano ancora una volta come i grandi scrittori che sono ““ “Afterife” su tutte.
(Marco D’Alessandro)
1. THE NATIONAL
Trouble Will Find Me
[4AD]
“Trouble Will Find Me” mi ha fatto capire sul serio, mi ha fatto toccare con mano il significato dell’aggettivo “grower”. Dai primi ascolti irritanti, sulla scia di un giudizio di “desolazione”, alla totale empatia sotto traccia, ai fianchi e infine nel mezzo del petto che solo i National oggi sono in grado di suscitare. Sulla scia, questa volta, del giudizio di ciò che in realtà Berninger e soci offrono: “consolazione”.
(Alessandro “Diciaddue” Schirano)
…questi sono i National e che “Trouble will find me” non è solo l’album che ho ascoltato in modo ossessivo (ossessivo) e esclusivo per tutti questi mesi. Qui parziale, oggettivo, personale non sono parole che hanno senso, non per loro. Pieni voti, vette meritate, avete il mio cuore, ma lo sapevamo già tutti.
(Sara Marzullo)
La prima parola che mi viene in mente, per questo disco, è consapevolezza. C’è la consapevolezza di una band che ha raggiunto la piena maturità e sa benissimo dove vuole arrivare e quale strada percorrere, conosce i propri punti di forza ma soprattutto le proprie debolezze e non ha paura di mostrarle.
(Sebastiano Iannizzotto)
Ci sono album troppo sprofondati nella tua biografia personale ““ o che hai tenuto troppo tempo in macchina, chè è un po’ la stessa cosa ““ perchè se ne possa parlare anche solo con simulata oggettività . Per me, “Trouble Will Find Me” è uno di quelli, e io non ci proverò nemmeno a vendervi qualche bella ragione per questo secondo posto. Silenzio stampa (e devozione).
(Serena Riformato)
“Trouble Will Find Me” è soprattutto un disco di cui non so parlare, un disco che in fondo è pop, ma è più complicato di quanto sembri. è un disco davvero malinconico, ma sa farti stare bene. è una specie di dolore terapeutico e se cercate online troverete sicuramente qualcuno che sappia spiegarvi meglio. Io torno ad ascoltarlo.
(Nicolò “Ghemison” Arpinati)
…piuttosto, preferiscono modellare un opera che è già stata scolpita nel marmo, a cui rimaneva soltanto di rimuovere qualche imperfezione. E il risultato è un album di impatto, potente, coeso e coerente con la storia che finora è stata raccontata da questa band.
(Tommaso “Pacha” Pavarini)
Altro disco, altro classico. Il rock americano da qualche anno ormai ha i National come migliori intepreti, anche dal vivo, come dimostrato per l’ennesima volta nel corso dell’ultimo tour che li ha portati anche in Italia (chi c’era all’Auditorium di Roma non potrà dimenticare).
(Davide “Helmut” Campione)
…Sono così persistentemente malinconici, non è credibile dice un tizio che conosco e che vorrebbe stimarli più di quanto gli riesca naturale. Come ho fatto con la guardia di un locale che una sera mi ha strattonato il polso per chiedermi che cazzo intendo con quel tatuaggio, mi sono trincerata dietro un modesto silenzio. Non c’è niente da spiegare, a gente che non sa niente. Everything means everything.
(Claudia Durastanti)
La seconda parte della classifica: