Dal morbido lamento delle anziane signore quasi protette dal loro stesso eco in una qualsiasi chiesa di provincia italiana, fino al principio, dove un grugnito primordiale risolve lo stridio di uno stormo di pennuti, a ritroso, non c’è un solo attimo, in “Messe I.X-VI.X” che non appaia consequenziale, quasi logico. In qualsiasi direzione e da qualsivoglia punto si decida di partire, c’è una linearità sottile ma ineluttabile con la quale è impossibile non fare i conti. Una peculiarità quasi ironica, se si tiene conto dell’enorme imprevedibilità dell’ensemble norvegese che, ancora una volta, cambia direzione in maniera brusca e del tutto inaspettata. Già , perchè se le ultime uscite avevano lasciato intravedere una propensione per il rock d’annata (“Childhood’s End”) e un richiamo a un’estetica pop sofisticata (“Wars of the Roses”), con “Messe I.X-VI.X” si vira, di nuovo, verso lidi non battuti che hanno il proprio habitat nel limbo tra l’elettronica e la musica classica contemporanea.
è l’apporto della Tromsø Chamber Orchestra a cambiare le carte in tavola in un album che, pur registrato dal vivo e in una sola sessione a Settembre 2012, per ammissione degli stessi Ulver e a causa delle tante manopole girate in fase di missaggio, non può comunque essere considerato un lavoro live. Ma la differenza, nell’era del digitale e della facile riproduzione sonora ed estetica, è davvero poco importante. Ciò che colpisce, invece è, fin da subito, “As Syrians Pour In, Lebanon Grapples with Ghosts of a Bloody Past”, che mette immediatamente in chiaro i paradigmi estetici del disco. L’orchestra, infatti, conquista il suo spazio sonoro vitale tracimando lentamente e inesorabile lungo le scie sonore di un ambient elettronico oscuro, salvo poi cedere il passo a una melodia di pianoforte che sembra guardare a Philip Glass. Ma è solo un attimo, perchè la musica torna a fluire con un crescendo wagneriano che risente, sotto il profilo estetico, di contemporanei come Arvo Pärt o Henryk Górecki. Ed è proprio la musica classica contemporanea (una definizione orribilmente utile) a fare da raccordo tra due mondi apparentemente così distanti fra loro.
La dimensione spirituale, poi, fa il resto. Messe, o l’espressione musicale, in senso stretto, della formula religiosa ““e in particolare di quella cristiana ““ è il secondo caposaldo di un’opera che, a voler guardarne con distacco lo svolgersi, assume i toni di una vera e propria funzione liturgica. Con le sue fasi, come, ad esempio, l’atto penitenziale di “Son of Man”, e il suo drammatico climax e la semplice supplica di un peccatore. (Oh Father / Heavenly Father / Forgive Me / For I Have Sinned / Against your Word [“…]). E i suoi silenzi (“Noche Oscura del Alma”).
Il rapporto tra due linguaggi solo apparentemente distanti, come la scansione orchestrale e l’elettronica, arriva al punto di non ritorno ogni qual volta (e ce ne sono parecchie) in cui distinguerle appare affare improbo. Come nella bellissima “Glamour Box (Ostinati)”, la cui tensione è espressa sia dal fraseggio ripetuto degli archi che dall’incedere pulsante di quella che, nuda, parrebbe minimal techno ma che, accompagnata dalla controparte musicale, diviene parte inscindibile del tutto o, se si vuole, a turno, ora forma e ora sostanza estetica.
Un lavoro che esprime tutta la sua contemporaneità attraverso la rilettura dei canoni compositivi dei due generi senza, per forza di cose, proporne lo stravolgimento. Da una parte Messiaen, dall’altra Terry Riley e Varèse. In mezzo, esattamente nel mezzo, quest’album che, dunque e per sua stessa natura estetica, è destinato a restare unico e difficilmente ripetibile