(Quasi) esattamente un anno dopo la prima discesa di Mark Burgess e soci nella capitale, riecco l’outsider del post-punk ottantiano, l’uomo dall’aura da “working class hero” virato coldwave a infilare una scaletta di quelli che oggi possono essere considerati “successi” (nel genere) probabilmente molto più di quanto non lo furono a loro tempo.
Soprattutto durante i cosiddetti “Noughties”, furono parecchie le band che riscoprirono i toni malinconici, i suoni liquidi e le geometrie percussive che resero i Chameleons UK una delle realtà più belle e sottovalutate del decennio “plasticoso”.
Un anno fa qui al Traffic, piccolo ma agguerrito club romano, c’era però un’altra foga, una voglia diversa in quella voce di tuono e in quel basso arcigno. Almeno inizialmente, i Chameleons (Vox), senza John Lever alla batteria (quindi con il solo Burgess della formazione originaria della band inglese), sostituito da un altro ben più giovane drummer, sembrano forse troppo calmi e guardinghi, quasi rilassati tra gli incantevoli riverberi e le precise strategie ritmiche.
Neil Dwerryhouse e Chris Oliver alle chitarre gemelle comunque non fanno rimpiangere il magico duo che fece brillare di nostalgica lucentezza i suoni dei post-punksters di qualche decennio fa, quel duo che credevamo irripetibile composto dagli indimenticabili Dave Fielding e Reg Smithies, axe-men sfuggenti e defilati. Mark al microfono afferma che è la migliore line-up con la quale ha mai suonato, dimenticando per qualche momento, a differenza di noi, i vecchi sodali.
La macchina da guerra dei Chams carbura con lentezza, ma passata la prima mezz’ora finalmente riesce a coinvolgere, riscoprendo quell’alchimia che nella data precedente ci fece gridare al miracolo col cuore in gola, riproponendo man mano quasi tutto il meglio traibile dal memorabile terzetto di gemme incastonate nella mitologia ottantiana, ossia il capolavoro “dark” “Script Of The Bridge”, il più sognante “What Does Anything Mean, Basically?” e l’energico “Strange Times”.
“Monkeyland” e “Second Skin”, tratti da “Script”…”, sono i veri momenti di catarsi del concerto, con il poco pubblico (ma calorosissimo sin dall’inizio) che si prodiga in avvolgenti cori da pub in festa, una festa della nostalgia, tra spleen urbano e squarci di luce, e poi di nuovo giù, in abissi violacei di corde cristalline e lampi sfocati.
Pare che nel 2014 uscirà un disco nuovo di zecca di questi Camaleonti 2.0. Non vediamo l’ora di ascoltarlo e magari rivedere Mark e soci di nuovo sul palco, magari, finalmente, con dei pezzi inediti, sperando che di poter ritrovare intatta la magia di quei suoni.