You’re listening to the non-clichèd, non-macho Maxà¯mo Park!
Sarà l’ultima battuta di Paul Smith questa sera al Tunnel prima di chiudere una scaletta tiratissima, con pochissime pause e dove anche il rito dei bis non prevede di scendere dal palco ma solo una semplice domanda: Volete sentire ancora dei pezzi?
L’ironia sulla carenza di machismo del gruppo è in risposta a una fan che gli aveva appena suggerito di togliersi la camicia ormai trasparente per il sudore (Non è il genere di cose che facciamo, si sente rispondere in modo quasi imbarazzato). Ma che ai Maxà¯mo Park mal si calzi l’immaginario cock rock è indubbiamente vero, e basterebbe a dimostrarlo il modo in cui Paul Smith si ostina dopo anni a muoversi sul palco, giocando con l’asta del microfono in modo talmente improbabile da averlo trasformato ormai, insieme ai suoi cappelli, nel suo marchio di fabbrica dal vivo.
Anche la lontananza dai clichè riassume bene lo spirito di questa band a ormai 10 anni dal debutto. Se il successo dei primi singoli era legato a doppio filo ai racconti di provincia della loro Newcastle, ora l’orizzonte si è fatto più ampio (la politica britannica in “The National Health”, i riferimenti al Sud America di Bolaà±o in “I Recognise the Light”, entrambe eseguite stasera) ma lo spostamento verso temi più grandi è rimasto all’insegna di uno sguardo umilmente individuale che racconta in prima persona senza pretendere di insegnare.
Questo è un pezzo sul sentirsi vivi dice Paul Smith per introdurre “Apply Some Pressure” ma si potrebbe applicare un po’ a tutto il repertorio del gruppo, specie alla sua esecuzione dal vivo che anche nelle ballate è sempre contraddistinta da una irruenza contagiosa. Nel frattempo anno dopo anno la perizia tecnica dei cinque si è incrementata, le ingenuità timbriche corrette, gli anthem dei primi dischi suonano oggi quasi meglio che allora. Gli scarni pianoforti elettrici di Lukas Wooller (che mi era sempre sembrato il componente più debole della band) hanno lasciato il posto a perforanti synth, che per la prima volta nel nuovo singolo “Brain Cells” scalzano addirittura le chitarre. Il risultato è di mettere in evidenza quanto siano le ritmiche e la batteria di Tom English ancora più dei riff di Duncan Lloyd a fare da vera colonna vertebrale alle canzoni.
Sono rarissimi i gruppi in grado di eseguire in questo modo, con questa convinzione e al contempo questa mancanza di autocelebrazione, le loro prime hit (“Graffiti”, “Our Velocity”) allo stesso modo dei pezzi migliori tra quelli scritti più di recente (“The Undercurrents”, “Give, Get, Take”). Il pubblico risponde e salta entusiasta, e io con loro. Nonostante il successo planetario dei primi due LP (e l’accoglienza solo lievemente più fredda per i successivi) sembrano considerarsi ancora una band working class: Non posso far finta di non aver lavorato stasera, dirà appunto Paul Smith a fine serata indicando la sua camicia grondante di sudore. Sarà una mia questione anagrafica, ma credo i Maxà¯mo Park siano diventati, in sordina e senza che nessuno veramente se lo aspettasse, una band da tenersi stretta non solo per quanto hanno prodotto nel passato ma per cosa sanno scrivere e suonare oggi.
Una piccola menzione per His Clancyness che sta accompagnando i Maxà¯mo Park in tour e che sembra aver fatto breccia nei cuori dei cinque di Newcastle (il chitarrista Duncan Lloyd sfoggia una t-shirt di “Vicious” e lo stesso Paul Smith inviterà a comprare il disco dell’artista bolognese). Meno breccia ha fatto, mi duole ammetterlo, nel mio: Jonathan Clancy frequenta palchi importanti all’incirca da altrettanto tempo della band inglese; ma se con l’ultimo lavoro a nome His Clancyness ha portato finalmente a compimento una formula definita in anni di esperimenti low-fi, la versione dal vivo, accompagnato da buona parte di quelli che furono con lui gli A Classic Education, mi sembra ancora acerba e non arriva a coinvolgermi quanto l’ascolto di “Vicious” mi aveva fatto (ben) sperare.
Photo: Hèctor Gómez / CC BY