Il democratico Frank Underwood (Kevin Spacey) è un ambizioso membro del parlamento. Durante la campagna elettorale, Underwood ha sostenuto l’elezione del Presidente Garrett Walker (Michael Gill), con la promessa di ottenere in cambio l’incarico di Segretario di Stato. Appreso, prima del giuramento, che Walker non ha onorato il patto, furioso per il tradimento subito, Underwood e la moglie Claire (Robin Wright) mettono in atto un piano di vendetta che prevede l’umiliazione dei nemici e la conquista di una posizione di potere alla Casa Bianca.
Ci voleva Netflix, un’internet tv in crescita esponenziale, per scommettere su un progetto così ambizioso e innovativo per modalità di fruizione(l’intera serie è stata resa disponibile un secondo dopo il rilascio del primo episodio) e per contrastare nella guerra televisiva i colossi HBO, AMC e Showtime.
“House of Cards” è ciò che gli appassionati di politica aspettavano dalla conclusione di “The West Wing”, un modo di affrontare e raccontare la politica attraverso i suoi interpreti principali, un prodotto che prende le regole del dramma seriale e le porta a un livello più alto.
Beau Willimon, showrunner e writer principale della serie, mette in atto tutta l’esperienza maturata nel film “le Idi di Marzo”, (altro dramma politico tra corruzione e cinismo) per portare sui nostri schermi una sceneggiatura che, per tempi di narrazione e ritmo, è sicuramente una delle migliori che si ricorda negli ultimi anni e rivela qualche mancanza solo nelle puntate finali, dove una progressione di eventi particolarmente importanti forse avrebbe richiesto maggior approfondimento; ma paragonare questo tipo di lavoro a quello che Aaron Sorkin fece con “The West Wing” e fa tuttora con “The Newsroom” non è assolutamente un’eresia.
Risulta difficile trovare un solo capitolo in questa stagione che sia poco efficace e anche le puntate di transizione riescono a tenere alta l’attenzione e la tensione narrativa; tensione che spesso viene richiamata grazie a due parole: Politics e Power, ovvero i vocaboli che costruiscono il castello di carte.
Politics non è da tradurre solamente come politica nel più lato senso europeo, perchè in USA si utilizza il termine per indicare solamente i rapporti di forza tra partiti e/o politici(è con policy e polity che si arriva al significato “completo”).
Politics è il termine chiave della serie, non viene ripetuto assiduamente ma è inserito nei momenti salienti della stagione, viene enfatizzato per essere posto al di sopra del discorso, è un’entità , di cui (quasi) tutti hanno paura.
Power al contrario è più abusato e meno simbolico, ma strettamente legato a politics; è il termine che lega le vicende l’una all’altra e attorno al quale vengono fuori le reali intenzioni dei protagonisti.
Il comparto visivo è stato probabilmente affidato a David Fincher (qui anche produttore esecutivo) che usa una leggera desaturazione cromatica e le atmosfere già adottate nelle sue ultime pellicole.
Fincher è senz’altro la punta di diamante della crew registica, ma gli altri partecipanti al progetto sono affermati e di sicuro valore.
Joel Schumacher, ad esempio, è un nome altisonante che all’interno di una serie (quindi meno libero di agire liberamente e fare danni) può dare il suo contributo e Carl Franklin è uno che naviga nel dramma a sfondo thriller da tanti anni.
Cast di alto livello anche tra gli attori in cui spiccano le principali interpreti femminili, Kate Mara e Robin Wright.
La prima interpreta perfettamente una ragazza cinica e arrivista, la seconda sceglie di andare per sottrazione nel gestire una personalità apparentemente algida che si associa perfettamente al marito, ma che nasconde tutte le passioni e le voglie di una qualsiasi donna.
Chi merita ogni riconoscimento possibile però è il protagonista, Kevin Spacey.
Puntare su un attore di alto rango per una serie tv che vuole emergere in questo mercato spietato, ricco di prodotti validissimi, è una scelta che garantisce, come minimo, una visibilità maggiore e un personaggio carismatico; Ecco che allora Spacey pare una scelta vincente già in partenza.
Il suo Francis Underwood è un Mefistofele dei giorni nostri, che usa i vari Faust di turno come pedine per i suoi scopi di vendetta e potere.
è un personaggio caratterizzato perfettamente nei tempi e nei modi della contemporaneità , un essere altamente spregevole, dotato di un cinismo a cui si fatica a credere e rappresenta la faccia che l’America mostra al mondo, quella che fa buon viso a cattivo gioco.
La scelta di rompere spesso e volentieri la quarta parete attraverso Underwood s’inserisce perfettamente in tale contesto ed è sicuramente simbolica di come, nelle decisioni politiche, noi possiamo solo stare a guardare e al massimo intuire il gioco di potere che ci sta dietro.
Netflix ci regala così la serie migliore del 2013, un prodotto intelligente, tecnicamente irreprensibile, con un protagonista in stato di grazia e una sceneggiatura che non consente tempi morti.
Se anche i Primetime Emmy awards (oscar della televisione) hanno cambiato le regole in corsa per far concorrere questa serie, vuol dire che Beau Willimon e soci sono riusciti a creare qualcosa di unico.