L’unica volta che ho visto Joan as Policewoman dal vivo ero distratta. Era uno di quei festival estivi che si fanno in città del tutto insignificanti (in quella città insignificante io ci sono nata) che però ogni tanto tirano fuori un nome grande e nessuno capisce come mai. Chissà cosa pensano questi ospiti quando si trovano in hotel rimasti agli anni ottanta dove nessuno parla bene inglese. Joan Wasser indossava una tuta interamente coperta di paillettes rosa, stivaletti che sarebbero stati male a chiunque e moltissima bigiotteria. Ero distratta e non ricordo praticamente altro, però mi ricordo come era vestita.
Mi è tornato in mente mentre ascoltavo il suo ultimo disco, “The Classic”: ho pensato che ci vuole del puro talento per fare un disco che suona così fuori dalle mode, che ci vuole personalità per indossare paillettes rosa ed essere bella in quel modo sgraziato in cui sono belle certe cantautrici, che “The classic” non è un disco indimenticabile, però è un disco che possono fare poche persone. A quel concerto, il tastierista indossava una maglia di Whitney Houston in un modo del tutto non ironico.
Buon pastiche musicale, questo album è quello che si definisce un album maturo ““ ossia, Joan Wasser è in una posizione in cui non deve chiedere niente, libera di cantare e suonare quello che più le piace. Dal do-wop alla musica soul, Joan si diverte a cantare con il suo timbro bello e inconfondibile su canzoni che sembrano appartenerle meno del solito, ma che sa governare con la solita grazia. La title-track The classic sembra arrivare dagli anni ’60, sembra la cover di un pezzo che decenni fa avrebbero ballato muovendo a tempo il bacino o ascoltato distesi sul tappeto in camera: eppure niente di tutto questo è veramente datato, nè troppo detto, anche se tecnicamente è solo un montaggio di luogo comuni, di costruzioni e immagini che già abbiamo visto e sentito (state ballando abbracciando un cuscino, vero?). Assomiglia tutto più a un gioco di stile, a un gioco linguistico: le 99 versioni della stessa storia, un romanzo scritto senza usare una vocale, il disco di una donna che sta bene e si diverte a riproporre la sua versione della storia musicale, che ti dice che sarebbe stata la cantante perfetta in ogni epoca. “The classic” è un disco che non sperimenta, ma perchè lei non ha bisogno ““ qui, a questa altezza ““ di sperimentar:, “I’m in the best place I’ve ever been”, dice, e a noi va bene.
E le canzoni sono solo canzoni, forse non dicono niente di vero o di biografico; le storie sono qualcosa che ci raccontiamo, con buona pace di tutta la critica e della Wasser stessa: there’s a story that’s been in my life and I’ve taken it as gospel sure as the day/ But now I’m starting to see that it’s just an invention that really wasn’t about me.
Alla fine qualche perplessità resta, perchè tutto sommato questo disco è privo dell’incisività di molta della produzione di Joan, nonostante la cura stilistica interessante, la ricchezza musicale e una voce che le permette di fare tutto (“The New year’s day”, tanto per dirne una). Ma a una cantante così, davvero, cosa volete dire? Oh this is how I start my love letter, but I may have missed my mark.